Scala, una prima sottotono e insidiata dall’inflazione delle rappresentazioni di Don Carlo in Lombardia

L’errore di prospettiva – attribuire alla platea del 7 dicembre alla Scala, quella da 3.200 euro a poltrona, un qualche ruolo simbolico o a suo modo rappresentativo degli italiani – era evidente da molto tempo. Quest’anno lo ha chiarito di fatto, pur se non intenzionalmente (ma si spera definitivamente), il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che peraltro con la sua ufficializzata assenza dal Don Carlo di Sant’Ambrogio ha fatto diventare notiziabile, come si dice in gergo, l’inaugurazione scaligera più smunta degli ultimi tempi.

Scala, una prima sottotono e l'inflazione di Don Carlo
Sergio Mattarella e la figlia Laura alla Prima del 2019 (Imagoeconomica).

L’inaugurazione della stagione operistica milanese torna a essere una tra le tante 

Anche solo dal punto di vista dell’immagine, i «pressanti impegni» del Capo dello Stato – per restare alla versione ufficiale – assestano un fiero colpo all’orgoglio meneghino, almeno in questo campo sempre più spesso effetto senza causa. L’inaugurazione della stagione operistica milanese torna a essere una fra le numerose da un capo all’altro della Penisola (ce ne sono 14, tante quante le Fondazioni lirico-sinfoniche). E la cronaca deve peraltro segnalare che quest’autunno a una di esse soltanto, finora, Mattarella ha assistito, quella della Fenice lo scorso 24 novembre (con Les Contes d’Hoffmann di Offenbach per la regia di Damiano Michieletto). Niente Scala e niente Opera di Roma pochi giorni fa (27 novembre, Mefistofele di Boito). Da qualsiasi parte la si giri, a prescindere dalle motivazioni sulle decisioni del Quirinale, la conferma che ormai la vetusta e perfino un po’ caricaturale immagine della Scala come “tempio della lirica” non solo ha fatto il suo tempo, ma rischia di diventare una palla al piede. E sarebbe molto meglio concentrarsi di più su quanto necessario per provare a salvare – fuori da ogni inutile classifica – almeno qualcosa dell’immagine molto impolverata di “più importante teatro d’opera del mondo”, se è vero che a osservatori non abbastanza sensibili al “sistema-Scala” il Piermarini appare ormai per molti aspetti un teatro di provincia.

Degli antichi fasti, la prima scaligera conserva solo il privilegio della diretta su Rai1 in un clima sempre più routinier

E mentre ci si avvia alla prima, che degli antichi fasti conserverà solo il privilegio della diretta su Rai1, reso opinabile dalla tradizionale banalità dei soliti entertainer di lungo corso, emerge più di sempre quanto il clima sia routinier, fra interviste di maniera ai cantanti e discorsi un po’ generali e un po’ avventati – quasi sempre disinformati – sulle caratteristiche musicali e artistiche di ciò che andrà in scena. Si annota che il direttore Chailly rivendica la fedeltà al testo musicale, anche nell’introduzione strumentale all’aria famosa di Filippo II, Ella giammai m’amò, che postula l’intervento di tutti i violoncelli e non solo di uno. E non si ricorda che il dettaglio è stabilito dall’edizione critica, risalente al 1977 e che già Abbado lo aveva adottato, ormai una quarantina di anni fa. Si dà atto delle puntigliose precisazioni del regista Lluis Pasqual a proposito della non corrispondenza fra i fatti storici e quelli narrati nel libretto: addebito che peraltro dovrebbe andare inizialmente e principalmente a Friedrich Schiller. E che lascia comunque aperti tutti gli interrogativi sulle scelte rappresentative che si vedranno alla Scala. Le prime fotografie mostrano una scenografia di saldo impianto tradizionale, come i costumi.

Il giallo della sostituzione di René Pape con Michele Pertusi e l’inflazione delle rappresentazioni del Don Carlo a ridosso del 7 dicembre

Cronache anche minuziose, eppure manierate, lontane da ogni spunto critico o semplicemente analitico. Nessun dettaglio, ad esempio, si è riusciti a leggere – oltre la notizia nuda e cruda – a proposito del fatto che il basso ingaggiato da mesi per la parte di Filippo II, René Pape, è uscito per la comune a 20 giorni dall’andata in scena, sostituito in corsa da Michele Pertusi. Come se si trattasse, anche in questo caso, di routine. Cosa che evidentemente non è. Né è emersa a livello mediatico una singolare circostanza, peraltro sotto gli occhi di tutti gli appassionati: nelle ultime settimane in Emilia-Romagna e proprio in questi giorni in Lombardia l’affollamento delle rappresentazioni del Don Carlo è decisamente fuori dall’ordinario. Una vera e propria inflazione. In novembre, fra Modena, Piacenza, Reggio Emilia e Rimini si sono avute otto andate in scena di una produzione risalente a una decina di anni fa. Nel cast di quegli spettacoli, fra l’altro, la Scala ha pescato il Filippo II di emergenza, Pertusi. Il quale infatti alle ultime rappresentazioni di quel giro, al teatro riminese Amintore Galli, il 24 e il 26 novembre, ha dovuto marcare visita e farsi sostituire. Ma soprattutto, dalla fine di novembre gira per la Lombardia un’altra produzione del Don Carlo, questa nuovissima, sempre nella versione in italiano e in quattro atti che va in scena anche alla Scala. E girerà anche nei giorni intorno a Sant’Ambrogio. La promuove OperaLombardia, realtà voluta e ampiamente finanziata dalla Regione, oltre che dalla Fondazione Cariplo, che realizza e distribuisce produzioni liriche in cinque storici teatri di tradizione, da Bergamo a Brescia, da Como a Cremona e a Pavia. Questo nuovo Don Carlo si vale della regia di Andrea Bernard; Jacopo Brusa dirige la milanesissima orchestra dei Pomeriggi Musicali. Come Filippo II canta il basso Carlo Lepore, anche il resto del cast è tutto italiano. Dopo il debutto al Fraschini di Pavia il 17 e 19 novembre e le prime repliche al Ponchielli di Cremona il 24 e 26 novembre, rappresentazioni sono in calendario al Teatro Grande di Brescia (1 e 3 dicembre); gran finale del tour al Sociale di Como, l’8 e 10 dicembre.

Scala, una prima sottotono e insidiata dall'inflazione delle rappresentazioni di Don Carlo in Lombardia
La locandina del Don Carlo del Fraschini di Pavia.

Un segnale di insofferenza per quel che si fa nel tempio della lirica, semplice distrazione o mancanza di comunicazione?

La sovrapposizione dello stesso titolo è un bizzarro inedito, rispetto al quale viene da chiedersi se nessuno parla con nessuno, per quanto riguarda la programmazione del teatro musicale in Lombardia. E senza entrare nel merito di chi per primo abbia lanciato il suo Don Carlo, anche se si sa che al Piermarini la programmazione viene da molto lontano. Un segnale, allora, che il cosiddetto territorio è insofferente per quel che si fa nel “tempio della lirica” e con sprezzo del pericolo e più o meno agguerritamente non esita ad andare sullo stesso titolo negli stessi giorni? O l’evidenza di quanto distanti siano La Scala e gli altri teatri, anche se i chilometri sono pochi? O semplicemente una distrazione? Intanto le cronache segnalano che Regione Lombardia, che è anche socio fondatore della Fondazione Teatro alla Scala, era assente dalla conferenza stampa molto istituzionale in cui si è parlato dello spettacolo del 7 dicembre. Ma era certamente un problema di “pressanti impegni”. Per gli appassionati, resta la sicuramente irripetibile quantità di occasioni di vedere Don Carlo, opera meravigliosa e difficile. Chissà cosa ne avrebbe pensato Verdi. Facile immaginare che avrebbe sbrigliato la sua notoria, corrosiva ironia…

L’amore per il Milan, il tifo e il mio ritorno a San Siro dopo 10 anni: il racconto della settimana

Reduce da una serie di bianchi con Ofelia alla Terra Trema esco dal Leoncavallo con le Air Pods ficcate nelle orecchie che sono quasi le cinque del pomeriggio e sopra la mia testa il cielo è già nero. Mi dirigo con passo svelto, stretto nel mia giacca blu da marinaio con il bavero alzato, verso la fermata del bus e in sottofondo suona in digitale un pezzo tratto da The Complete Obscure Records Collection, la poderosa raccolta recentemente ristampata, che comprende tutti i dischi prodotti da Brian Eno per la sua mitologica etichetta Obscure Records, che ho ricevuto qualche giorno fa grazie a un ex collega di Radio Pop, che mi ha inviato tutti i 10 album via mail scrivendo nell’oggetto la semplice parola IMPRESCINDIBILE a caratteri cubitali.

[In due parole, per chi non la conoscesse, la Obscure Records, etichetta d’avanguardia di musica sperimentale fondata da Brian Eno nel 1975 con lo scopo di «iniettare nuove aree nel rock», è stata attiva fino al 1978. Ha in catalogo solo 10 dischi, mai più ristampati, che nel tempo sono diventati autentici oggetti di culto. Il gioiello Music for Airports dello stesso Eno, datato 1978, doveva essere l’11esimo album della serie, come testimoniato dalla scritta in copertina della prima stampa Uk OBS-11, ma poi l’etichetta venne chiusa e il disco aprì una nuova collana della Ambient Records, mettendo fine di fatto alla Obscure].

Ascolto con attenzione, isolandomi completamente durante il tragitto verso lo stadio, riflettendo sul fatto che la sensazione principale che questi album mi restituiscono è avere intorno un infinito senso di spazio; una roba simile a quella che solitamente provo ascoltando della roba di Nicolas Jaar o alcuni lavori di Miles Davis, di Alabaster De Plume o vecchi pezzi dei Boards of Canada. E penso tutto questo anche mentre cambio linea del metro in Piazzale Lotto sfogliando mentre aspetto il treno l’ultimo libro pubblicato da Minimum Fax di Mark Fisher, intitolato Non siamo qui per intrattenervi, che raccoglie una serie di considerazioni che il giornalista inglese aveva scritto sul suo blog K-Punk riguardo alla letteratura, prima di impiccarsi nel 2017 a soli 48 anni, devastato dalla depressione.

L'amore per il Milan, il tifo e il mio ritorno a San Siro dopo 10 anni: il racconto della settimana
Murales a San Siro.

È strano tornare allo stadio dopo quasi 10 anni di assenza con Fisher arrotolato nella tasca dei jeans e i dischi della Obscure Records nelle orecchie, ma il tempo passa per tutti e le cose cambiano, tranne l’amore per il Millan, in effetti. Così eccomi qui, che esco dal bocchettone della metropolitana nel piazzale davanti a San Siro, cercando il fido Baj e i suoi due figli, Giorgio & Coco, con i quali ho appuntamento per assistere alla partita con la Fiorentina. Un vecchio numero di Rivista 11 sul “tifo”, uscito un paio d’anni fa, a cui avevo dedicato anche una puntata di PopUp, rifletteva sul fatto che il nuovo tifoso digitale viene considerato dai frequentatori dello stadio in generale e più in particolare da quelli delle cosiddette curve, una sorta di tifoso minore. «Se non ci sei non puoi capire», recitava un vecchio adagio ultras, tradotto in tutte le lingue del mondo, e posso dire che un tempo la pensavo anch’io così.

La prima volta che sono stato allo stadio avevo all’incirca 11 anni e avevo ossessionato mio padre a tal punto che alla fine lo avevo convinto a portarmici. Era una fredda giornata di marzo del 1991 e a San Siro scendeva in campo un Milan condotto da Arrigo Sacchi ormai alla fine del suo ciclo. Senza Ancelotti, Donadoni e Gullit, che all’epoca era il mio eroe assoluto, perdemmo una partita giocata male contro l’Atalanta, puniti da una capocciata del brasiliano Evair, che spedì in rete la palla che si infilò beffarda dietro le spalle di Pazzagli, dopo una cinquantina di minuti di gioco. Non bastarono nemmeno le prodezze di Marco Van Basten per risollevare quella squadra, campione d’Europa in carica, quel pomeriggio di marzo. Squadra che da lì a pochi giorni si sarebbe giocata tutto al Velodrome di Marsiglia, in Coppa dei Campioni, in una notte tragica che passò alla storia come “la notte dei lampioni”. Nonostante la sconfitta ricordo però che rimasi completamente rapito dall’atmosfera di San Siro, seduto di fianco a mio padre sulle poltroncine rosse della tribuna, con lo sguardo ebete di chi vede per la prima volta un luogo che nella sua mente fino a quel momento aveva idealizzato come mitologico.

La prima volta che sono stato allo stadio avevo all’incirca 11 anni e avevo ossessionato mio padre a tal punto che alla fine lo avevo convinto a portarmici. Era una fredda giornata di marzo del 1991 e a San Siro scendeva in campo un Milan condotto da Arrigo Sacchi ormai alla fine del suo ciclo. Senza Ancelotti, Donadoni e Gullit, che all’epoca era il mio eroe assoluto, perdemmo una partita giocata male contro l’Atalanta

Passarono gli anni delle medie e finalmente arrivò il periodo disturbato del liceo, quando San Siro, piano piano, divenne quasi un appuntamento fisso, sia al primo anello arancio, di fianco a DFA, quando suo padre (abbonatissimo da anni) disertava qualche partita, sia in Fossa, dove più che per vedere la gara si andava per drogarsi, saltando e cantando ininterrottamente per 90 minuti. Non sono mai stato un ultras perché in fondo l’atmosfera della curva non l’ho mai amata particolarmente, troppa tensione e troppi delinquenti tutti assieme, anche se devo ammettere che mi ci sono divertito parecchio per il periodo in cui l’ho frequentata. C’era chi si divertiva a costruire velieri in bottiglia, chi a caricare cilum a raffica, tutti uguali, democraticamente uno di fianco all’altro; il figlio dell’avvocato spalla a spalla con il tabbozzo delle case popolari, il plazaro con il giubbotto costoso di fianco al figlio del macellaio. Ogni tanto qualche malcapitato cadeva sotto le mire di qualche gruppuscolo particolarmente violento e così vedevi calci e cinghiate che volavano senza alcun motivo, così per il gusto di darle, anche tra sostenitori della stessa squadra. Non ho mai avuto un abbonamento, spesso compravo il biglietto, altre volte quando ci girava, aspettavamo che la celere si distraesse e con i regaZ scavalcavamo i cancelli dello stadio e poi correvamo a 300 all’ora verso le entrate del terzo anello, dove i controlli erano più flebili. Oggi con tornelli e steward disseminati ovunque sarebbe impossibile.

L’inizio del lavoro al bar la sera, in concomitanza con l’inizio della cosiddetta “banter era” rossonera mi ha nel tempo allontanato dallo stadio. Fino a oggi, quando, come un vecchio signore con il cappotto, di fianco a due ragazzini di 12 e 13 anni, mi sorprendo a esultare come un pazzo tra bandiere e fumogeni, per il gol del Milan

Il periodo migliore a San Siro fu però quello poco dopo i 20 anni, fissi al primo anello blu. Con il fido Baj arrivavamo allo stadio in vespa pochi minuti prima dell’inizio della partita ed entravamo gratis grazie a un amico che lavorava alle biglietterie e ci faceva passare, sia che fosse campionato che Champions. Una dopo l’altra, in quegli anni, seguimmo tutte le gare del Milan di Ancelotti, che all’epoca vinse uno scudetto e coppe a profusione. L’inizio del lavoro al bar la sera, in concomitanza con l’inizio della cosiddetta “banter era” rossonera mi ha nel tempo allontanato dallo stadio. Fino a oggi, quando, come un vecchio signore con il cappotto, di fianco a due ragazzini di 12 e 13 anni, mi sorprendo a esultare come un pazzo tra bandiere e fumogeni, per il gol del Milan.

Enrico VIII, in vendita per 2,3 milioni di euro la residenza di caccia dove corteggiò Anna Bolena

La celebre residenza di caccia nel Sussex appartenuta a re Enrico VIII, il castello di Bolebroke, è in vendita per 2 milioni di sterline, equivalente a circa 2,3 milioni di euro. Il castello del fondatore della Chiesa anglicana risale al 1480 e si trova nel pittoresco villaggio di Hartfield. Fu qui che il re corteggiò Anna Bolena, damigella di corte della sua prima moglie Caterina d’Aragona. Anna Bolena, che all’epoca aveva solo 20 anni, catturò l’attenzione del re che voleva assolutamente l’erede maschio che la prima moglie, madre della futura regina Maria I, non era riuscita a dargli. Tuttavia, la fortuna non sorrise alla nuova coppia: nemmeno Anna Bolena, sposata dopo l’annullamento delle prime nozze, non diede a Enrico VIII ciò che voleva. Tre anni dopo le nozze, Anna Bolena fu giudicata colpevole di tradimento, adulterio e incesto con il fratello, condannata a morte per decapitazione.

Enrico VIII, il castello in cui corteggiò Anna Bolena in vendita per 2,3 milioni di euro
Il castello di Enrico VIII (Wikipedia).

Trecento metri quadri immersi nel verde

Il castello ha subito nei secoli notevoli trasformazioni. Come recita l’annuncio pubblicato dall’ agenzia immobiliare Hamptons, la residenza ha quattro camere da letto, tre bagni e quattro saloni. Inoltre, include un suggestivo parco e si trova nelle vicinanze del pittoresco villaggio di Hartfield, celebre per essere l’ambientazione del bosco dei 100 acri nelle storie di Winnie the Pooh. Nel corso del tempo, la proprietà è stata ampliata con nuovi edifici, e attualmente occupa oltre 300 metri quadrati. Il piano terra ospita un ampio soggiorno con soffitto a volta e travi a vista con un imponente camino in mattoni, il secondo più grande in tutto il Regno Unito. Grandi porte finestre si aprono verso l’esterno e i giardini. Sempre al piano terra, si trovano uno studio e una sala giochi, due camere matrimoniali e due bagni, insieme alla cucina. Un arco conduce alla parte storica dell’edificio, dove c’è una sala da pranzo e una scala che porta ai livelli superiori e alle stanze situate nelle due alte torri ottagonali in mattoni, con accesso tramite una scala a chiocciola in rovere.