Il Papa, le aperture sospette di Mosca e il negoziato quasi impossibile con l’Ucraina

Il Papa e la sua pattuglia di cardinali ci hanno provato testardamente fin da principio del conflitto in Ucraina ad aprire uno spiraglio per il negoziato, al netto delle parole di troppo dette da Francesco in alcune occasioni – come le ultime improvvide uscite di elogio alla tradizione culturale russa associata, in un curioso cortocircuito, allo zar Pietro il grande e a Caterina II – la volontà di fermare la guerra è stata il Leitmotiv dell’azione di Bergoglio dal febbraio 2022 a oggi. Va anche ricordato che al principio, oltre a prendersela con la Nato, il pontefice assestò un colpo niente male anche al suo omologo Kirill, capo del patriarcato ortodosso di Mosca, spiegandogli in videoconferenza che il compito dei leader religiosi non è certo quello di fare i chierichetti dei capi di governo, Putin compreso. Insomma, il Papa ne ha dette varie, non osservando l’attenzione dovuta a uno scenario estremamente complesso sotto il profilo diplomatico, creando profonde incomprensioni fra gli ucraini cattolici e non e, più in generale, nelle chiese cattoliche dell’Europa orientale.

Il Papa, le aperture sospette di Mosca e il negoziato quasi impossibile con l'Ucraina
Papa Francesco e il patriarca Kirill nel 2016 (Getty Images).

Gli aiuti umanitari all’Ucraina e la missione riuscita a metà del cardinale polacco Konrad Krajewski

Si vedrà alla fine se il saldo delle scelte compiute da Francesco sarà positivo o negativo, intanto però è possibile scorgere una strategia di fondo. Il Papa ha infatti utilizzato alcuni dei suoi più stretti collaboratori per muoversi nel pantano determinato dalla crisi ucraina. In particolare ha inviato a Kyiv e nelle regioni coinvolte più direttamente nelle operazioni militari, il cardinale di origine polacca Konrad Krajewski, ovvero “l’elemosiniere del Papa”, in termini più istituzionali si tratta del prefetto del dicastero per il Servizio della carità, ovvero l’organismo vaticano che opera interventi di solidarietà ai più bisognosi a nome del pontefice. Krajewski si è recato numerose volte in Ucraina portando aiuti e generi di prima necessità alle popolazioni civili colpite dalla guerra (e almeno in un’occasione, ricevendo qualche colpo d’avvertimento da parte dell’artiglieria russa), poi ha riferito al Papa in merito a ciò che ha visto di persona e ai colloqui che ha avuto. La sua missione aveva fra l’altro lo scopo di mostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, la vicinanza di Francesco alla popolazione civile. L’operazione, però, è riuscita solo in parte; se infatti la Chiesa greco cattolica ucraina ha ringraziato più volte il Papa per il sostegno umanitario (articolatosi anche attraverso l’azione di diverse caritas nazionali europee), probabilmente la Santa Sede ha sottovalutato, almeno in un primo momento, il consenso di cui godeva la linea di  Volodymyr Zelensky di resistere a ogni costo all’invasione russa. Gli ucraini non solo non vogliono a nessun costo finire triturati da Mosca, ma non accettano neanche di cedere porzioni delle loro terre al gigantesco e traballante vicino, tanto più da quando ne hanno intravisto la fragilità militare. Solo una logorante situazione di stallo, che non sia però in nessun modo percepibile come una sia pure parziale e incerta vittoria russa, potrebbe indurre Kyiv a interrompere le ostilità. Anche perché data la situazione ormai determinatasi, è ben difficile che qualcuno degli alleati occidentali possa mettere in discussione gli aiuti militari, una vittoria anche solo politica di Putin potrebbe infatti avere conseguenze disastrose per le già deboli democrazie europee.

Il Papa, le aperture sospette di Mosca e il negoziato quasi impossibile con l'Ucraina
L’elemosiniere del Papa Konrad Krajewski (Getty Images).

L’apertura (a parole) di Mosca a Zuppi e i rischi dell’equidistanza vaticana

E tuttavia, dato che nessun conflitto è eterno, le elezioni per la Casa Bianca del novembre 2024 potrebbero influire sul proseguimento della guerra, considerando che Joe Biden non ha alcun interesse a ritrovarsi in campagna elettorale mentre le ostilità sul terreno si intensificano e le spese per sostenerle si moltiplicano. In questo spiraglio può inserirsi anche il tentativo vaticano, partito certamente come ipotesi velleitaria ma, nonostante tutto, ancora in piedi. Il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, è infatti stato per conto di Francesco a Kyiv e a Mosca, a Pechino e a Washington. Da ultimo, il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha invitato il cardinale a tornare a Mosca – dove in verità nella sua prima visita Zuppi aveva ricevuto un’accoglienza piuttosto fredda – dicendosi pronto a incontrarlo e ad ascoltare le proposte di mediazione della Santa Sede. Si vedrà se è solo propaganda rivolta alle posizioni pacifiste presenti in Europa e in Italia in area cattolica e in ambienti politici di sinistra (come in realtà di estrema destra) o se la Russia intende fare sul serio. Di fatto, tuttavia, il Vaticano dovrà mettere da parte, se intende davvero diventare un partner internazionale per un negoziato di pace capace di coinvolgere anche le autorità ucraine, tutti gli estremismi ideologici di un pacifismo d’antan, come un’improbabile equidistanza fra aggredito e aggressore o la richiesta di un cessate il fuoco immediato che favorirebbe più l’oppressore che l’oppresso, e aprirsi con decisione a una posizione favorevole a una pace costruita nel rispetto del diritto internazionale. In altre parole sostenere che nessuna controversia internazionale può essere risolta con una invasione. Un’impostazione fatta propria più volte in modo accorto e non urlato dal segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, ma meno recepita, nella sostanza, da realtà cattoliche importanti come la Comunità di Sant’Egidio dalla quale pure proviene il cardinal Zuppi.

Il Papa, le aperture sospette di Mosca e il negoziato quasi impossibile con l'Ucraina
Il cardinal Zuppi (Imagoeconomica).

Papa Francesco, i rapporti con la Russia e la diffidenza verso gli Usa

Non potevano che suscitare scalpore le ultime uscite di Bergoglio sulla “grande madre Russia”, dato almeno il contesto in cui sono arrivate. Francesco, infatti, parlando in videocollegamento a un nutrito gruppo di giovani cattolici russi lo scorso 25 agosto, dopo averli invitati a essere artigiani di pace, contraddittoriamente e un po’ a sorpresa, ha indicato loro come esempi e modelli di riferimento cui guardare e di cui essere eredi preservandone la tradizione, Pietro il grande e Caterina II; zar e zarine insomma, parte di quella tradizione russa imperiale più adatta a un discorso nostalgico che a una interpretazione della storia capace di costruire il presente e il futuro di una grande nazione che, in tutta evidenza, ha bisogno di uscire dal proprio mito decaduto per ricostruire un sistema di relazioni internazionali non più basato sul sopruso all’interno e all’esterno dei propri confini.

Perché il discorso del Papa ai giovani russi è anacronistico e miope

E se è vero che Pietro e Caterina contribuirono alla modernizzazione della Russia, allo stesso tempo non c’è dubbio che la loro grandezza coincise pure con una spietatezza assolutista altrettanto ampia e spregiudicata, a un espansionismo militare, al mantenimento di uno stato di sudditanza delle masse contadine che non fu certo temperato dai timidi tentativi di riforme illuminate portati avanti da Caterina. E indubbiamente il sistema di governo zarista prolungatosi nel tempo, incapace di vedere, sia pure minimamente, le reali condizioni di vita in cui versava il popolo russo, fu tra le cause scatenanti della Rivoluzione d’Ottobre. Per questo il discorso di saluto del Papa ai giovani russi, nella sua parte conclusiva, è sembrato del tutto anacronistico, anche perché si rivolgeva a una generazione che davvero poco ha a che spartire con quella eredità. «Voi siete i figli della grande Russia», aveva scandito infatti a sorpresa Francesco, «la grande Russia dei santi, dei re, la grande Russia di Pietro I, Caterina II, quell’impero grande, colto, di grande cultura e grande umanità. Non rinunciate mai a questa eredità. Voi siete eredi della grande madre Russia, andate avanti con essa».

Papa Francesco, i rapporti con la Russia e la diffidenza verso gli Usa
Papa Francesco e il patriarca Kirill nel 2016 (Getty Images).

Bergoglio cerca di rimanere un interlocutore di Mosca e a mantenere la terzietà della Chiesa 

Certo, da parte del Pontefice, c’è la volontà di rimanere un interlocutore privilegiato anche per Mosca in un momento in cui il conflitto in Ucraina sembra essere entrato in un frangente decisivo; ma forse sussiste pure il timore che la guerra travolga tutto, anche il dialogo fra le chiese d’oriente e occidente, e che del cammino ecumenico faticosamente compiuto in questi decenni per avvicinare i due polmoni del cristianesimo, quello di Roma e quello di Mosca, alla fine non resti che un cumulo di macerie. Di sicuro, in ogni caso, c’è il fatto che ogni pronunciamento del Papa sulla Russia è destinato a far discutere. Del resto Francesco non si rassegna a iscrivere la Chiesa cattolica in uno dei due schieramenti che si fronteggiano nei territori contesi dell’Ucraina, verrebbe meno, secondo la prospettiva della Santa Sede, quella posizione di terzietà, di indipendenza, in grado di garantire al Vaticano la possibilità di giocare un ruolo di primo piano qualora sul serio si avviassero dei negoziati di pace. Questa la scommessa fatta dal Papa, forse non del tutto in sintonia, nelle modalità scelte per portare avanti una simile strategia, con il Segretario di Stato Pietro Parolin che, da diplomatico esperto, è abituato a valutare il peso di ogni parola e a considerare tutte le implicazioni di ogni passo compiuto dalla Santa Sede sul piano internazionale.

Papa Francesco, i rapporti con la Russia e la diffidenza verso gli Usa
Papa Francesco e il cardinale Pietro Parolin (Imagoeconomica).

L’irritazione di Kyiv e della Chiesa greco-cattolica ucraina

D’altro canto, la strada sulla quale Papa Francesco ha portato la Chiesa è davvero stretta: se da una parte, infatti, la necessità di non rompere con Mosca induce spesso lo stesso Pontefice a utilizzare toni non eccessivamente polemici nei confronti del Cremlino, quest’approccio provoca non di rado la reazione irritata o diffidente da parte ucraina, sia sul fronte istituzionale del governo di Volodymyr Zelensky, sia, e qui la cosa per la Santa Sede ha una sua gravità specifica, sul versante della Chiesa greco-cattolica ucraina, cioè di quella componente della società del Paese aggredito da Mosca che si riconosce nella fede cattolica e ha storicamente un legame forte sia con Roma sia con la confinante Polonia e, in definitiva, con l’Occidente. Non a caso in questa occasione la reazione delle autorità di Kyiv è stata particolarmente dura nei confronti della Santa Sede; il portavoce del ministero degli Affari esteri dell’Ucraina, Oleg Nikolenko, ha infatti scritto, fra le altre cose, in un post pubblicato su Facebook: «È con la necessità di salvare ‘la grande madre Russia’ che il Cremlino giustifica l’assassinio di migliaia di uomini e donne ucraini e la distruzione di centinaia di città  e villaggi ucraini».

Quella diffidenza tutta latinoamericana del Pontefice verso gli Usa

C’è anche da parte di Francesco una diffidenza tutta latinoamericana verso le politiche promosse da Washington, un automatismo anti-Nato che scatta immediatamente in chi, per lunghi decenni, si è abituato a vedere gli Stati Uniti che trattavano l’America Latina come fosse, appunto, il cortile di casa. E certamente, nella prima fase della guerra, la Santa Sede ha faticato a comprendere che il Caucaso e le nazioni limitrofe a cominciare dall’Ucraina, erano considerate da Mosca il proprio cortile di casa; tuttavia quella fase sembra conclusa, anche per via delle informazioni dirette raccolte sul campo di battaglia dai diversi inviati del Pontefice con il corollario di distruzioni, violazioni dei diritti umani, deportazioni via via emerse in questi mesi. Resta da dire che il Papa mostra forse un approccio un po’ datato al tema della “tradizione russa”, molto letterario e, tutto sommato, poco concreto rispetto alla crisi in atto, o quanto meno tale da sembrare o stridente con i fatti odierni o fin troppo accondiscendente con la politica del Cremlino che, non a caso, è l’unico che ha espresso il proprio consenso alle parole del Papa sulla grande madre Russia e sugli zar.

Roma sarà pronta per il Giubileo 2025?

C’è poco da fare: a Roma le trasformazioni urbanistiche, virtuose o meno che siano, si fanno in concomitanza con grandi eventi e fra questi spiccano quelli religiosi, a cominciare dagli anni santi. Non fa eccezione il Giubileo del 2025 per il quale, grazie anche ai fondi stanziati col Pnrr, Roma potrà godere di risorse straordinarie per 3,5 miliardi di euro. Che, tradotto, significa una miriade di opere della più varia natura: centinaia di cantieri e interventi urbanistici, servizi per il turismo, di riqualificazione urbana, collegamenti ferroviari, rifacimento di strade e chi più ne ha più ne metta. I tempi però sono strettissimi, tanto più per le burocrazie capitoline e italiche abituate ad agire con estrema calma. A dicembre 2024 si procederà con l’apertura della Porta santa della basilica di San Pietro. Ma sui tempi, appunto, non c’è alcun margine di trattativa: l’indizione dell’anno santo è opera del Papa, e la scadenza è fissa, ogni 25 anni (il primo risale al 1300 e a Bonifacio VIII). Ormai, anche i governi (da Draghi a Meloni in piena continuità) si sono adeguati e si preparano per tempo alla scadenza giubilare.

All’estero si teme per Roma una «apocalisse zombie»

In ogni caso, l’attesa di circa 35-40 milioni di pellegrini – queste le previsioni attuali – fa tremare i polsi. Anche perché un simile ciclone umano si abbatterebbe su una città già satura di turisti, e questo è il meno, avvolta da anni in un caos generale: dai trasporti pubblici allo stremo a un traffico quotidiano soffocante, dalla storica carenza di strutture ricettive di costo medio-basso a un ormai endemico problema di sporcizia nelle strade (obiettivamente umiliante per una capitale europea), con una raccolta differenziata che fa acqua da tutte le parti. Senza contare lo stato di degrado urbano e di semi abbandono in cui versano tanti quartieri, centrali e periferici. Dato questo quadro generale, cosa potrebbe andare storto? Qualche dubbio è venuto anche a John Allen, vaticanista americano di lungo corso, che sulla testata online che dirige, Crux, ha scritto: «Il fatto è che Roma in questo momento è sopraffatta dall’enorme numero di persone che visitano la città e i sistemi urbani sembrano sull’orlo del collasso. Non riesco nemmeno a immaginare che tipo di apocalisse zombie possa attendere tali folle supplementari di visitatori tra due anni». Un epitaffio forse troppo forte? Staremo a vedere.

Roma sarà pronta per il Giubileo 2025?
Il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri (Imagoeconomica).

Il metodo Giubileo: le sinergie tra Campidoglio e Palazzo Chigi

D’altro canto va sottolineato come governo e opposizione sul Giubileo – in nome di Roma e della cristianità, s’intende – procedano compatti come un sol uomo, tanto che già si parla di “metodo Giubileo” per indicare l’intesa raggiunta fra il sindaco dem di Roma Roberto Gualtieri, già ministro dell’Economia nel governo Draghi, la premier Giorgia Meloni, e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, cattolico integralista, ex presidente dell’organizzazione “Aiuto alla Chiesa che soffre” con buone entrature in Vaticano. Non può mancare in questo schema, la presenza della ministra del Turismo, Daniela Santanché, impegnata in particolare nella valorizzazione dei cammini religiosi e siti turistici di Roma e dintorni, anche perché c’è da sfruttare la dotazione significativa di 500 milioni di euro del Pnrr turismo, per quel che riguarda il capitolo dal prevedibile titolo “caput mundi”.

Roma riuscirà a essere pronta per il Giuibileo 2025?
Alfredo Mantovano e Giorgia Meloni (Imagoeconomica).

Il ritorno di monsignor Rino Fisichella

L’altro protagonista del “metodo Giubileo”, è monsignor Rino Fisichella, pro-prefetto del dicastero vaticano per l’Evangelizzazione, in passato cappellano di Montecitorio, gran conoscitore della politica italiana. L’arcivescovo passò alle cronache, fra l’altro, per avere detto, era il 2010, che «bisognava contestualizzare le situazioni» dopo la diffusione di un video nel quale l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi raccontava una barzelletta su Rosiy Bindi, all’epoca vice presidente della Camera, che si concludeva con una bestemmia. Anche Osservatore romano e Avvenire criticarono l’uscita del Cavaliere; altri tempi, quasi un’altra era geologica. Tuttavia, mons. Fisichella guarda lontano e, proprio in occasione della recente inaugurazione del cantiere di Piazza Pia, compreso fra la fine di via della Conciliazione e l’area antistante Castel Sant’Angelo, ha osservato: «L’auspicio è che non guardiamo soltanto al 2025. Il 2025 è una tappa. Auspichiamo che Roma possa essere luogo anche di Expo 2030 e che possa guardare, anche grazie a quella tappa, al Giubileo del 2033. Ci auguriamo che siano queste tante tappe che portano Roma e la Santa Sede al centro dell’attenzione internazionale». Quello che si dice un cronoprogramma da paura.

Roma sarà pronta per il Giubileo 2025?
Papa Francesco e monsignor Rino Fisichella (Getty Images).

Il progetto per Piazza Pia e la lezione dimenticata del mega parcheggio al Gianicolo

A Piazza Pia, intanto, sede di uno dei grandi interventi previsti, verrà realizzato un sottovia che si collegherà a quello già esistente realizzato, neanche a dirlo, in occasione del Giubileo del 2000, e che permetterà di avere una grande area pedonale da Castel Sant’Angelo a piazza San Pietro. Fantastico, in effetti. Se non fosse che le 3 mila auto all’ora (dati del Comune di Roma) che attraversano quel tratto di strada, non si dissolveranno d’incanto, ma spariranno solo per qualche centinaio di metri per ricomparire sul lungo Tevere poco più avanti. Dettagli, si dirà. Intanto si allarga l’area pedonale. Resta poi insoluto un problema centrale: come arriveranno le decine di migliaia di pellegrini e turisti dalle parti di piazza san Pietro? Il problema pullman incombe come una calata quotidiana dei barbari sulla città da qualche decennio. Tanto che già in occasione del Grande Giubileo del 2000, una pensata non da poco venne in mente all’allora amministrazione Rutelli in accordo col Vaticano rappresentato da monsignor Crescenzio Sepe (futuro cardinale e arcivescovo di Napoli, oggi in pensione). Un mega parcheggio a cinque piani fu ricavato all’interno della collina del Gianicolo, quella presidiata alla sua sommità dal monumento equestre a Garibaldi e alla base dai palazzi vaticani, mentre a metà strada, lungo le pendici, si trovano diverse prestigiose proprietà vaticane e l’ospedale pediatrico Bambin Gesù. L’opera venne annunciata e realizzata come fosse la grande e definitiva risposta all’intasamento dei torpedoni che soffocano il centro storico e non solo. I bus turistici come grandi dinosauri avrebbero dovuto imboccare le gallerie dalle quali si accede al parcheggio, scaricare i fedeli e i turisti che, d’incanto, si sarebbero ritrovati a piazza san Pietro. Il miracolo però non ha funzionato e l’opera – costo complessivo più di 80 miliardi delle vecchie lire – è rimasta una cattedrale nel deserto. Nel parcheggio non ci vuole andare nessuno, né tanto meno è obbligato ad andarci. E allora? Bè – la notizia è di qualche mese fa – al quinto piano del fu parcheggio, è stato costruito un mega centro commerciale, Caput mundi – The mall, dove è possibile fare una “boutique experience” e anche parcheggiare l’auto perché il posto certo non manca. Ecco, l’auspicio è che si faccia tesoro delle esperienze passate. In quanto ai poveri che il papa vorrebbe mettere al centro del Giubileo, bè per loro c’è sempre tempo.

La confusione vaticana sull’Ucraina e l’impotenza dell’inviato del papa Zuppi

Non esiste un piano di pace del Vaticano. Lo ripetono come un mantra i protagonisti dell’azione diplomatica dispiegata dalla Santa sede per provare a fermare la guerra in corso in Ucraina ormai da un anno e mezzo. Tutt’al più si tratta di aprire canali umanitari nella speranza che da cosa nasca cosa, ossia che l’inizio di un negoziato limitato allo scambio di prigionieri o alla restituzione dei bambini sequestrati dai russi durante l’occupazione di alcuni territori ucraini, produca il miracolo di far sedere allo stesso tavolo i rappresentanti di Mosca e Kyiv per avviare una trattativa. Una scommessa talmente ardua che persino Oltretevere non sono in molti a crederci, anche perché dopo il quasi flop del viaggio a Mosca dell’inviato per la pace del papa, il cardinale italiano Matteo Zuppi, pure sul fronte umanitario le cose sembrano diventate estremamente difficili.

La Santa sede forse puntava a far valere il suo soft power

Va detto che la mediazione vaticana, almeno nelle intenzioni dichiarate del papa, doveva aver ben altro profilo; non che le questioni umanitarie non stiano a cuore al pontefice, anzi, tuttavia probabilmente la Santa sede forse puntava a far valere il suo soft power in questa circostanza, grazie a quella sorta di neutralità attiva lungo la quale si era schierata la Chiesa di Roma in ragione di una strenua opposizione al conflitto ucraino in particolare, e alla guerra – alle guerre – in generale, al riarmo e alla violenza, instancabilmente proclamata da papa Francesco (e che aveva procurato più qualche mugugno verso il Vaticano in varie cancellerie occidentali).

La confusione vaticana sull’Ucraina e l'impotenza dell'inviato del papa Zuppi
Il cardinale Matteo Zuppi a Mosca (Getty).

Il presidente della Cei nemmeno ricevuto da Putin

A Washington il cardinale Zuppi ha intenzione di chiedere aiuto al capo della Casa bianca, il cattolico Joe Biden, per far partire almeno quella trattativa umanitaria divenuta da qualche tempo il centro dell’intraprendenza diplomatica vaticana. Anche perché il presidente della Cei, al Cremlino, nel corso della precedente tappa della sua missione non è stato nemmeno ricevuto da Vladimir Putin; quest’ultimo era infatti troppo assorbito dai rischi di un colpo di mano interno al regime a opera di settori militari russi, per poter aprire un negoziato sul sequestro di quei bambini per il quale si è guadagnato un mandato di cattura per crimini di guerra emesso dalla Corte penale internazionale. D’altro canto, e va ricordato, un aiuto in questo senso era stato chiesto esplicitamente al Vaticano dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che prima aveva rifiutato l’ipotesi di una mediazione accompagnata da una proposta di pace della Santa sede, quindi aveva indicato la via del negoziato umanitario come terreno sul quale la Chiesa poteva esercitare la sua moral suasion fra i contendenti.

La partita sul rimpatrio dei bambini ucraini deportati 

Cosa può attendersi Zuppi dalla Casa bianca? Certamente una buona disposizione all’ascolto, forse un moderato aiuto sul fronte umanitario, ma è difficile che via sia molto altro oltre quelle che saranno le dichiarazioni di facciata. Da parte americana, in un comunicato ufficiale, così veniva presentato l’incontro fra Biden e il porporato italiano in programma nella tarda serata di martedì 18 luglio: «Il presidente Biden e il cardinale Zuppi discuteranno delle diffuse sofferenze causate dalla brutale guerra della Russia in Ucraina. Discuteranno anche degli sforzi degli Stati Uniti e della Santa sede per fornire aiuti umanitari alle persone colpite e dell’attenzione della Sede pontificia al rimpatrio dei bambini ucraini deportati con la forza da funzionari russi». Per quanto fra grandi potenze valga soprattutto il gioco delle parti e della propaganda, tanto più se c’è di mezzo una guerra, quelle della Casa bianca sembrano affermazioni più tese a riconoscere la buona fede della Chiesa che non la reale possibilità di una trattativa sulla restituzione dei bambini da parte di Mosca. In ogni caso staremo a vedere ciò che accadrà, se cioè il “miracolo” della pace farà qualche sia pur piccolo passo avanti o se tutto rimarrà com’è.

La confusione vaticana sull’Ucraina e l'impotenza dell'inviato del papa Zuppi
Zelensky ricevuto dal papa nel 2020 (Getty).

Lo strano e silenzioso defilarsi della segreteria di Stato vaticana

Infine non è passato inosservato agli occhi degli esperti di cose vaticane un certo silenzioso defilarsi della segreteria di Stato vaticana di fronte all’iniziativa promossa dal papa con l’invio del cardinal Zuppi nelle capitali coinvolte nel conflitto. Niente di clamoroso, certo, in apparenza tutto è concordato con il cardinal Pietro Parolin, segretario di Stato, e tuttavia quest’ultimo tende a restare molto sulle sue in questa fase; forse qualcuno Oltretevere teme che alla fine l’attivismo dell’inviato del pontefice, appoggiato dalla forte presenza internazionale della Comunità di Sant’Egidio – dalle cui fila Zuppi proviene –rischi di accrescere l’isolamento della Santa sede sul piano internazionale anziché favorirne il prestigio? È solo un’ipotesi, ma certo se la missione di pace non dovesse ottenere risultati concreti, anche in Vaticano ci sarà un momento in cui si dovrà fare chiarezza.

Papa Francesco blinda i posti chiave della Curia, dalla dottrina alla nomina dei vescovi

Chi si aspettava, dopo la morte del papa emerito, che anche papa Francesco procedesse rapidamente sulla strada delle dimissioni a causa dell’età avanzata, dei problemi di salute e di una complessiva riduzione delle forze, è rimasto fortemente deluso. Anzi, Bergoglio sta utilizzando questi mesi in cui in Vaticano c’è un “papa solo” per puntellare la sua riforma e la sua visione delle cose, a cominciare dalla Curia vaticana che sta subendo un cambiamento profondo. Per altro, Bergoglio si è levato più di un sassolino dalla scarpa, come dimostra il rapido licenziamento dell’ex segretario personale di Ratzinger, mons. Georg Gänswein, rispedito in Germania, a Friburgo, sua diocesi d’origine, senza alcun incarico. Gänswein, informava una nota vaticana diffusa a giugno, non era neanche più prefetto della Casa pontificia già dal 28 febbraio scorso; d’altro canto, l’ex uomo di fiducia del papa emerito, si era distinto negli ultimi anni e poi subito dopo la scomparsa di Benedetto XVI, per aver mosso critiche ripetute al magistero di Francesco giudicato con fastidio per le sue aperture, le forti limitazioni imposte alla celebrazione della messa in latino, il tentativo di slegare la Chiesa dagli eccessi del tradizionalismo. Gänswein è così tornato a casa e ha smesso di essere, fra le mura vaticane, l’ingombrante rappresentante dei nostalgici di un mondo perduto, quello della cristianità capace di orientare le scelte politiche dei governi e i costumi della società, un modello ancora vagheggiato da Ratzinger e al quale lui stesso aveva dato però una bella scossa con le sue dimissioni, ridimensionando in tal modo, ulteriormente, il ruolo del papato in età moderna.

Papa Francesco blinda i posti chiave della Curia, dalla dottrina alla nomina dei vescovi
Georg Gänswein. (Imagoeconomica).

Fernandez, il teologo progressista considerato il ghost writer del papa

Se la partenza di Georg ha chiuso una lunga stagione di equivoci e incomprensioni, non meno importanti sono state le nomine che si sono susseguite negli ultimi mesi. Da ultimo il nuovo prefetto del Dicastero per la dottrina della fede, Victor Manuel Fernandez, ormai ex arcivescovo di La Plata, che ha preso il posto di un navigato e moderato uomo di Curia come il gesuita Luis Ladaria. Uomo di fiducia di papa Francesco, teologo di tendenze progressiste, autore di diversi documenti chiave del pontificato tanto da essere considerato il ghostwriter del papa, Fernandez in pochi giorni ha messo insieme ben tre nomine, praticamente un record. Prima è appunto diventato il nuovo custode della dottrina, quindi è stato inserito, fra i membri nominati direttamente dal pontefice, fra i partecipanti con diritto di voto alla fase finale del sinodo generale dei vescovi che ci celebrerà a Roma il prossimo ottobre, evento che definirà le strategie della presenza cattolica nel mondo negli anni a venire; infine, domenica 10 luglio, il suo nome è rientrato fra quello dei 21 nuovi cardinali nominati da Francesco. Una tripla promozione sul campo che la dice lunga sulla volontà del pontefice di lasciare il cammino segnato al prossimo papa, anche perché Fernandez è relativamente giovane, almeno per i parametri vaticani, e con i suoi 60 anni potrebbe restare nel cuore del sistema vaticano a lungo.

Papa Francesco blinda i posti chiave della Curia, dalla dottrina alla nomina dei vescovi
Victor Manuel Fernandez.

Dal ruolo delle donne alle unioni gay: verso una dottrina meno rigida

D’altro canto, ha fatto scalpore la lettera irrituale con la quale Bergoglio ha accompagnato la nomina del teologo argentino alla guida del dicastero della dottrina. «Il dipartimento che lei presiederà – ha messo nero su bianco Francesco – in altri tempi è arrivato a usare metodi immorali. Erano tempi in cui più che promuovere la conoscenza teologica si perseguitavano eventuali errori dottrinali. Quello che mi aspetto da te è senza dubbio qualcosa di molto diverso». Il papa osserva come non vi possa essere «un unico modo» di esprimere la dottrina perché «le diverse linee di pensiero filosofico, teologico e pastorale, se si lasciano armonizzare dallo spirito nel rispetto e nell’amore, possono far crescere anche la Chiesa. Questa crescita armoniosa conserverà la dottrina cristiana più efficacemente di qualsiasi meccanismo di controllo». Per Bergoglio non ci si deve accontentare di «una teologia da tavolo, con una logica fredda e dura che cerca di dominare tutto». «Serve un pensiero», aggiungeva ancora Francesco nella missiva diffusa dal Vaticano, «che sappia presentare convincentemente un Dio che ama, che perdona, che salva, che libera, che promuove le persone e le chiama al servizio fraterno». Una concezione opposta a quella di Joseph Ratiznger che tendeva a considerare lo stesso dicastero depositario di verità definitive e assolute elaborate dal centro della Chiesa universale sulla cui applicazione poi Roma doveva vigilare attentamente. E in effetti le prime uscite di Fernandez confermano il nuovo clima che si respira all’ex Sant’Uffizio. Intervistato dal Quotidiano Nazionale, in merito al ruolo delle donne nella Chiesa per esempio ha osservato: «Dico che non ci servirà analizzare questo problema in modo isolato. Ciò che c’è dietro ed è molto più profondo è il discorso sul potere nella Chiesa e sull’accesso delle donne ai luoghi dove sussiste un potere decisionale. Ecco perché è importante che le donne inizino a votare al Sinodo», come in effetti ha deciso il papa con una decisione dirompente. Alla fase finale dell’assise 54 donne, per la prima volta, potranno votare e saranno madri sinodali che affiancheranno i tradizionali padri sinodali. Fernandez ha inoltre manifestato disponibilità ad affrontare il tema della fine del celibato obbligatorio, e ha aperto all’ipotesi di benedizione delle unioni omosessuali, sempre che rimanga netta la distinzione con il matrimonio fra uomo e donna.

Papa Francesco blinda i posti chiave della Curia, dalla dottrina alla nomina dei vescovi 0
Monsignor Prevost.

Prevost è il nuovo prefetto dei dicastero dei vescovi

Una seconda nomina destinata a pesare negli equilibri interni della Chiesa, forse meno appariscente ma altrettanto importante della precedente, è quella del nuovo prefetto del dicastero dei vescovi, mons. Robert Francis Prevost, 67 anni, che ha preso il posto del cardinale conservatore di origine canadese Marc Ouellet. Anche Prevost fa parte dei nuovi cardinali nominati da Francesco il 10 luglio. Prevost, chiamato dal papa a succedere a Ouellet lo scorso 30 gennaio, era stato fino ad allora vescovo di Chiclayo, in Perù, Paese nel quale ha trascorso gran parte della propria attività pastorale e missionaria pur essendo statunitense di origine; inoltre il nuovo prefetto è anche presidente della Pontificia commissione per l’America Latina. Ora, di fatto, la regia delle nomine della Chiesa universale e quella della dottrina, sono nelle mani di personalità fortemente in linea con il magistero di Francesco. Il papa ha dunque deciso, in questa fase finale del pontificato, di calare gli assi decisivi per provare a dare slancio definitivo al cammino di riforma intrapreso.

Papa Francesco: “L’Europa è in crisi, minacciata dal consumismo. Costruire ponti di pace tra popoli”


La catechesi di Papa Francesco durante l'udienza generale a San Pietro oggi: "La libertà è minacciata da un consumismo che anestetizza. L'Europa intera è in crisi. Riflettiamo allora sull'importanza di custodire le radici, perché solo andando in profondità i rami cresceranno verso l'alto e produrranno frutti".
Continua a leggere