Marco, 32 anni, è il primo paziente dimesso dall'ospedale di Forlì. Se l'è cavata con otto giorni di ricovero e una terapia di farmaci antiretrovirali. Ma la paura c'è stata: quella di non riuscire a più respirare, e quella di contagiare i familiari. L'intervista.
Ci abbiamo messo tempo a capirlo, forse per qualcuno non è ancora chiaro: il Covid-19 non colpisce solo over 60 e anziani. Può colpirci tutti. Anche i giovani, anche quelli sani e sportivi. Certo, è più probabile che loro ne escano indenni rispetto ai propri genitori o nonni, ma essere ricoverati in ospedale di fianco a persone che faticano a respirare e farsi un mese di isolamento non è certo una passeggiata. Oggi che sappiamo tutto questo non è forse meglio stare a casa?
LA PAURA DI UNA MALATTIA NUOVA
Mattia, il paziente 1 di Codogno, 37 anni, ne è uscito dopo quasi un mese di ospedale, in terapia intensiva, con la moglie incinta, anche lei contagiata. Marco Galetti, 32 anni, di Forlì, fortunatamente non ha visto quel reparto, ha sempre respirato autonomamente, ma un ricovero di otto giorni in Pneumologia lo avrebbe evitato volentieri (in Emilia Romagna i casi aumentano: il 23 marzo sono stati allestiti 307 posti letto in più allestiti in più, portando il totale da 3.454 a 3.761). Marco è stato dimesso e sta bene – è il primo paziente guarito da coronavirus nella città di Forlì – ma si è dovuto confrontare con la paura di una malattia nuova che ti travolge anche se credi di essere invincibile, così giovane e senza nessuna patologia. «Il 3 marzo ho iniziato ad avere febbre oltre i 38, credevo fosse passeggera, non mi ero preoccupato affatto. Ma con il passare dei giorni, nonostante la tachipirina, non si abbassava», racconta a Lettera43.
DOMANDA. A quel punto hai chiamato il tuo medico?
RISPOSTA. Sì, mi ha prescritto l’antibiotico, anche questo però non è servito. Dopo il decimo giorno con la febbre oltre 38 mi ha misurato anche la saturazione, l’ossigeno nel sangue, che era relativamente basso. Il 13 marzo è venuta a prendermi l’ambulanza.
Avevi sospettato potesse essere coronavirus?
All’inizio no, ero convinto fosse semplice febbre. Avevo soltanto il respiro un po’ strano. Dopo il decimo giorno in cui continuavo a stare male ho pensato però che la situazione fosse più seria.
E quando sei arrivato al Pronto soccorso?
Mi hanno fatto Tac e lastre. Il responso è stato polmonite. Poi mi hanno fatto il tampone che è risultato positivo.
Come hai reagito?
In quel momento ho avuto paura. In ospedale vedevo persone che faticavano a respirare. Non sapevo se sarei peggiorato come loro, essendo un virus nuovo non sapevo davvero cosa aspettarmi. E avevo il pensiero di fisso di potere aver contagiato anche mia madre e la mia ragazza.
Hai capito come sei stato contagiato?
Il 29 febbraio ero stato a una festa di compleanno dove c’erano una cinquantina di persone. Nei giorni successivi sei o sette di noi si sono ammalati, con febbre per qualche giorno. Ma nessuno ha avuto sintomi forti come i miei, quindi a loro non è stato fatto il tampone. Probabilmente erano asintomatici. È solo un’ipotesi però.
Dopo la positività del tampone cos’è successo?
Mi hanno ricoverato nel reparto di Pneumologia dell’ospedale di Forlì, dove sono rimasto per otto giorni e mi hanno somministrato una terapia di farmaci antiretrovirali.
Come sono stati quei giorni in ospedale?
Non è stato facile, chiaramente sei completamente isolato dal mondo. Gli unici contatti umani sono quelli con i medici e gli infermieri. E per fortuna avevo un compagno di stanza, anche lui contagiato, di 37 anni. Le giornate scorrevano molto lentamente. È stato snervante.
Emotivamente come stavi?
All’inizio avevo molta paura, poi però ho razionalizzato: ero in ospedale, con la flebo attaccata, quindi ho pensato di trovarmi nel posto migliore in cui potessi essere. Di essere fortunato. Vedevo continuamente arrivare persone positive al Covid-19. Quando qualcuno veniva dimesso qualcun’altro veniva ricoverato.
Hai visto immagini
dure?
Alcune sì, di persone che non riuscivano più a
respirare da sole. Un signore che era con me nel reparto di
pneumologia è stato spostato in terapia intensiva. Io pensavo a
quello: avevo paura di peggiorare.
La terapia però sembrava funzionare?
Sì. Ogni giorno mi sentivo sempre un po’ meglio. Rendermi conto che reagivo bene ai farmaci ha scacciato il panico iniziale.
Il 21 febbraio sei
stato dimesso. Come stai?
Mi sento meglio e sono felice di
essere a casa. Abito da solo e dovrò fare altri 15 giorni di
isolamento poi mi rifaranno il tampone.
Ai tuoi familiari lo hanno fatto?
No. Mia madre è monitorata quotidianamente dall’ufficio igiene, è ancora in quarantena. Ma non ha sintomi. Mio padre fortunatamente non lo avevo visto subito prima del ricovero e può portarmi la spesa.
Cosa vuoi dire a tutti
quelli che faticano a capire che bisogna stare a casa?
All’inizio
anch’io, come tanti, l’avevo presa sottogamba. Purtroppo però in
molti non ancora ancora oggi capito la gravità di questo virus, che
non è un’influenza. Bisogna fare uno sforzo, soprattutto, più che
per noi stessi, per le persone che possono avere più problemi di noi
ad affrontare la malattia. Io ho 32 anni, sono uno sportivo, sono
certamente più forte di un 60enne o di un nonno con patologie.
Stiamo a casa per loro.
Stare a casa è meglio di stare in ospedale con tutte le paure del caso, possiamo lanciare questo messaggio?
Assolutamente. Stare a casa propria e non avere contatti con nessuno è l’unica soluzione per fermare il contagio. Io dal 3 di marzo sono solo. E mancano ancora quasi due settimane di isolamento. In totale sarà un mese, anche quando mi hanno dimesso ovviamente non ho visto nessuno, mi hanno portato a casa in ambulanza. Ma non si può fare altro.
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