Enrico VIII, in vendita per 2,3 milioni di euro la residenza di caccia dove corteggiò Anna Bolena

La celebre residenza di caccia nel Sussex appartenuta a re Enrico VIII, il castello di Bolebroke, è in vendita per 2 milioni di sterline, equivalente a circa 2,3 milioni di euro. Il castello del fondatore della Chiesa anglicana risale al 1480 e si trova nel pittoresco villaggio di Hartfield. Fu qui che il re corteggiò Anna Bolena, damigella di corte della sua prima moglie Caterina d’Aragona. Anna Bolena, che all’epoca aveva solo 20 anni, catturò l’attenzione del re che voleva assolutamente l’erede maschio che la prima moglie, madre della futura regina Maria I, non era riuscita a dargli. Tuttavia, la fortuna non sorrise alla nuova coppia: nemmeno Anna Bolena, sposata dopo l’annullamento delle prime nozze, non diede a Enrico VIII ciò che voleva. Tre anni dopo le nozze, Anna Bolena fu giudicata colpevole di tradimento, adulterio e incesto con il fratello, condannata a morte per decapitazione.

Enrico VIII, il castello in cui corteggiò Anna Bolena in vendita per 2,3 milioni di euro
Il castello di Enrico VIII (Wikipedia).

Trecento metri quadri immersi nel verde

Il castello ha subito nei secoli notevoli trasformazioni. Come recita l’annuncio pubblicato dall’ agenzia immobiliare Hamptons, la residenza ha quattro camere da letto, tre bagni e quattro saloni. Inoltre, include un suggestivo parco e si trova nelle vicinanze del pittoresco villaggio di Hartfield, celebre per essere l’ambientazione del bosco dei 100 acri nelle storie di Winnie the Pooh. Nel corso del tempo, la proprietà è stata ampliata con nuovi edifici, e attualmente occupa oltre 300 metri quadrati. Il piano terra ospita un ampio soggiorno con soffitto a volta e travi a vista con un imponente camino in mattoni, il secondo più grande in tutto il Regno Unito. Grandi porte finestre si aprono verso l’esterno e i giardini. Sempre al piano terra, si trovano uno studio e una sala giochi, due camere matrimoniali e due bagni, insieme alla cucina. Un arco conduce alla parte storica dell’edificio, dove c’è una sala da pranzo e una scala che porta ai livelli superiori e alle stanze situate nelle due alte torri ottagonali in mattoni, con accesso tramite una scala a chiocciola in rovere.

Roma, così appariva la città nel 320 d.C.: lo studio dei monumenti perduti

Un gruppo di specialisti si è unito per concepire una ricostruzione virtuale dell’antica Roma, offrendo una visione della vita nella Città Eterna nel suo periodo di massimo splendore. Rome Reborn immagina la città al culmine della sua grandezza intorno all’anno 320 d.C., includendo luoghi ancora esistenti oggi come il Colosseo e l’Arco di Costantino, insieme a monumenti ormai perduti come il Colosso di Nerone. Un viaggio virtuale messo a disposizione dagli autori trasporta gli spettatori sopra il nucleo della città antica e le alture del Campidoglio e del Palatino. Questo progetto ha coinvolto l’azienda tecnologica educativa Flyover Zone e un team di esperti archeologici e storici per creare ciò che gli autori definiscono come «scientificamente accurato in base ai resti frammentari che sono giunti fino a noi».

Rome reborn, l’app per tornare indietro nel tempo

Immaginate di ammirare dall’alto il Circo Massimo, il Colosseo, i Fori imperiali in tutta la loro maestosa bellezza, entrare nel Pantheon e nella basilica di Massenzio. Una Roma così non l’avete mai vista, sostiene il team di esperti che si è occupato di mostrarci come la Capitale apparisse nel periodo di massimo splendore, il 320 d.C. Il frutto di 27 anni di lavoro di una squadra composta da accademici ed esperti tecnologici internazionali. Questi professionisti hanno realizzato Rome Reborn 4.0, un’app innovativa che consente di compiere un viaggio nel tempo. Attraverso Flight over ancient Rome, è possibile effettuare un tour in 3D della città antica, catturandone l’aspetto nel momento culminante del suo sviluppo urbano, intorno all’anno 320 d.C., poco prima che la capitale fosse trasferita a Costantinopoli.

L’app costituisce uno strumento prezioso e pratico per appassionati di storia, insegnanti, studenti e turisti che desiderano studiare, insegnare e immergersi nella storia antica attraverso la più estesa e accurata ricostruzione digitale mai creata di una città antica. Attraverso la realtà aumentata, offre agli utenti la possibilità di esplorare ogni dettaglio e prospettiva di oltre 7 mila edifici monumentali, distribuiti su una superficie di 13,6 chilometri quadrati all’interno delle mura Aureliane. Questo permette di rivivere la storia attraverso decorazioni ormai cancellate dal tempo e monumenti immortali, rivelando la loro forma originaria.

Haiku, i poeti del Giappone sono preoccupati dalla crisi climatica

«Il candore più bianco, delle pietre di Stone Mountain, il vento dell’autunno». Così scriveva nel settembre 1689 Matsuo Basho, uno dei massimi autori di haiku in Giappone. Poesie brevi di appena tre versi, racchiudono in poche parole l’essenza delle stagioni, il loro alternarsi costante e gli effetti sull’anima e la mente di un soggetto. Quasi 350 anni dopo, però, il quadro è drasticamente cambiato per colpa della crisi climatica. Tokyo e le città del Sol Levante affrontano sempre più spesso autunni afosi e caldi, con zanzare anche nei mesi di ottobre e novembre, ed estati piovose e fresche. Un mutamento che rende sempre più fuori luogo le tradizionali 17 sillabe nipponiche, che per generazioni hanno evocato sentimenti e ispirato la popolazione durante l’anno. Preoccupati soprattutto i poeti più puristi, che temono di vedere sparire un fattore che ha fatto la storia del Paese.

La crisi climatica mette a rischio anche la cultura del Giappone. Preoccupati i poeti haiku, tradizionali versi molto legati alle stagioni.
La fioritura dei ciliegi a Tokyo (Getty Images).

La crisi climatica condiziona la composizione e la lettura degli haiku

Ciascun haiku, per rispettare la tradizione inaugurata da Basho, deve contenere tre versi, rispettivamente di cinque, sette e nuovamente cinque sillabe per un totale di 17. Al suo interno, non deve mancare un kireji, la «parola tagliente» che contiene il significato stesso del componimento, e soprattutto un kigo, il riferimento esplicito a una delle quattro stagioni. Proprio in questo contesto si inserisce la crisi climatica che starebbe devastando il Saijiki, l’almanacco annuale dei termini che i poeti possono usare negli haiku per raccontare il caldo estivo, il pungente freddo dell’inverno o la fioritura dei ciliegi di marzo-aprile. Si tratta, come ha spiegato il Guardian, di particolari piante o animali, condizioni meteo, feste o colori del cielo che, se letti nel preciso giorno dell’anno, suscitano una serie di emozioni uniche. Con il surriscaldamento globale, ciò sta divenendo sempre più complesso.

«Il kigo comprime tre o quattro mesi in una sola parola», ha raccontato David McMurray, che ha curato una rubrica haiku per l’Asahi Shinbun. «Basti pensare alla zanzara, chiaro rimando al caldo dell’estate, oppure ai primi germogli dei sakura (ciliegi, ndr.) della primavera o l’arrivo dei tifoni autunnali». La crisi climatica però ha mutato tali elementi secolari, portando le tempeste in estate e le zanzare in autunno sia nel Nord che nel Sud dell’isola. «Rischiamo di perdere il ruolo centrale delle quattro stagioni nell’haiku», ha sottolineato McMurray. «Le parole del Saijiki non riflettono più la realtà». Altri autori nipponici, tra cui Toshio Kimura che dirige l’Associazione internazionale Haiku, hanno presupposto un adattamento da parte dei poeti, che però andrebbe a intaccare l’elemento cardine della tradizione. «Lo scopo non è lodare le stagioni stesse», ha ribadito l’autore. «Cerca di vedere l’essenza umana attraverso la natura».

Attivismo e adattamento potrebbero caratterizzare le nuove composizioni

Andrew Fitzsimons, professore di lingua e cultura inglese a Tokyo, ha ipotizzato che l’attivismo ambientale potrebbe presto prendere il sopravvento negli haiku. «Aumenta la sensazione di non essere al passo con i tempi», ha spiegato al Guardian. Sebbene descrivere la crisi climatica non rappresenti lo scopo principe dei celebri componimenti del Giappone, lo stesso Basho ne aveva involontariamente parlato nelle sue opere. «Rosso su rosso su rosso, il sole ancora implacabile, il vento dell’autunno», aveva scritto alla fine del XVII secolo. Lamentando la calura di settembre, il poeta aveva già narrato un fenomeno allora inusuale che però oggi rappresenta la normalità. «L’haiku riflette la quotidianità», ha concluso speranzoso Fitzsimons. «Il surriscaldamento globale e gli effetti che avrà sul nostro mondo ci saranno sempre».

Anatomia del Don Carlo, il capolavoro di Verdi che inaugura la stagione della Scala

Un filo rosso collega la prossima inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala, Don Carlo, a quella che l’ha preceduta, Boris Godunov. Il dettaglio non è stato finora sottolineato come merita, ma l’elemento comune è chiaro: sia Verdi che Musorgskij in queste opere attribuiscono una decisa dimensione politica ai soggetti storici che avevano scelto di mettere in musica. Il legame fra i due lavori, del resto, è anche nella loro genesi. La prima rappresentazione di Don Carlo avvenne all’Opéra di Parigi l’11 marzo 1867 e due anni più tardi il compositore russo iniziò a scrivere il Boris. Prima di mettersi al lavoro, all’inizio di quel 1869, aveva assistito a San Pietroburgo al capolavoro verdiano. Come ha osservato lo storico della musica Michele Girardi, la comune tematica di fondo riguarda «le logiche spietate dei detentori di un potere assoluto che disintegra l’aspirazione alla felicità individuale e collettiva degli oppressi».

Il Don Carlos, titolo originale, è l’ultima incursione verdiana nella drammaturgia di Schiller 

Don Carlo fu composto su commissione dell’Opéra di Parigi e rappresentato in occasione dell’Esposizione Universale del 1867. Nacque quindi come Don Carlos, su libretto in francese di François-Joseph Mery e Camille du Locle. Ultima incursione verdiana nella drammaturgia di Friedrich Schiller – e unica in età matura dopo Giovanna d’Arco, I masnadieri e Luisa Miller – l’opera costituisce di fatto anche una delle ultime e più importanti affermazioni del cosiddetto “grand-opéra” nato a Parigi ormai mezzo secolo prima, con la sua suddivisione in cinque atti, lo spazio concesso a grandi e spettacolari scene di massa, la presenza di un ampio inserto dedicato alla danza. Al suo apparire il lavoro fu salutato da un discreto ma non travolgente successo. E già iniziavano a circolare fra i critici gli addebiti di “wagnerismo” che cinque anni più tardi per Aida sarebbero diventati parere quasi generale. Tuttavia, si trattava pur sempre dell’ultima novità di uno dei massimi autori di teatro per musica, e subito se ne ebbero rappresentazioni in Italia (con il libretto tradotto da Achille de Lauzières) e in Europa.

Anatomia del Don Carlo, il capolavoro di Verdi che inaugura la stagione della Scala
Giuseppe Verdi (Getty Images).

Le modifiche apportate alla versione italiana

Con la versione in italiano (il titolo era diventato Don Carlo) cominciarono anche le modifiche da parte di Verdi: già significative quelle realizzate per l’approdo al San Carlo di Napoli nel 1872, fondamentali e radicali quelle che oltre un decennio più tardi furono approntate per le rappresentazioni alla Scala nel gennaio del 1884. Fu allora che venne tagliato il primo atto della versione iniziale dalla partitura. Si tratta del cosiddetto “atto francese”, che si svolge nella foresta di Fontainebleau e che peraltro non esiste in Schiller ma è proprio solo del libretto francese. Contiene, oltre a sofisticate pagine corali, un’aria di Don Carlo, erede al trono di Spagna e un duetto di questi con Elisabetta di Valois, sua promessa sposa di un tempo ora costretta dalla ragion di Stato a convolare con il padre di lui, il re di Spagna Filippo II. Dal taglio venne salvata solo l’Aria, inserita nel secondo atto (che diventava il primo). Verdi non era certo il tipo che si faceva imporre cambiamenti così importanti e infatti nel suo epistolario si trovano ripetute considerazioni positive sulla versione in quattro atti. Sta di fatto che appena un paio di anni più tardi, a Modena, non è chiaro con quanta diretta partecipazione del compositore, l’atto francese fu riesumato, naturalmente sempre in italiano. E l’Aria di Don Carlo tornò al suo posto originale. Se si aggiunge che una cinquantina di anni fa sono emerse dagli archivi dell’Opéra varie pagine della partitura iniziale, che il compositore stesso aveva tagliato in occasione della prima rappresentazione assoluta (almeno un quarto d’ora di musica, forse di più), si ha il quadro del complesso percorso creativo verdiano in Don Carlo.

Anatomia del Don Carlo, il capolavoro di Verdi che inaugura la stagione della Scala
Un libretto del Don Carlo.

La versione 1884 in quattro atti aprirà la stagione della Scala con Chailly sul podio e la regia di Lluís Pasqual

Dal punto di vista rappresentativo, oggi le opzioni restano principalmente due: la versione parigina del 1867 (in francese, cinque atti, con i ballabili) e la versione scaligera del 1884 (in italiano, quattro atti, senza ballabili); in alternativa a quest’ultima, c’è la versione modenese, in italiano ma con il recupero dell’atto francese. Negli Anni 80 sulla questione si erano divisi due fra i maggiori studiosi italiani, Massimo Mila e Fedele d’Amico, peraltro concordi nel ritenere quest’opera uno dei maggiori raggiungimenti dell’arte di Verdi. Mila era a favore della versione in cinque atti, d’Amico di quella in quattro atti. A 40 anni di distanza, pare di poter dire che il confronto sia stato vinto da quest’ultimo. Secondo l’archivio del sito specializzato Operabase.com, dai primi anni Duemila la versione francese in cinque atti è stata proposta solo una volta, nel 2004 all’Opera di Roma. Quella in italiano in quattro atti è largamente maggioritaria e anche frequente in maniera confortante: se ne contano 23 apparizioni nei teatri di 13 città, con Firenze in prima fila (quattro allestimenti) seguita da Milano con tre. Negli ultimi tempi se ne sono avute edizioni ragguardevoli alla Fenice di Venezia (2019, regia di Robert Carsen, direttore Myung-Whun Chung), a Firenze e a Napoli (meno di un anno fa). Fra l’altro, Don Carlo torna a essere l’opera del 7 dicembre scaligero a 15 anni dall’ultima volta che inaugurò la stagione milanese, nel 2008, direttore Daniele Gatti, regista Stéphane Braunschweig. L’ormai imminente nuova proposta milanese della versione 1884 in quattro atti vedrà sul podio Riccardo Chailly, mentre la regia sarà dello spagnolo Lluís Pasqual. Cast di notevole livello, con René Pape (Filippo), Luca Salsi (Posa), Francesco Meli (l’Infante), l’immancabile Anna Netrebko (Elisabetta) ed Elina Garanča (Eboli).

Anatomia del Don Carlo, il capolavoro di Verdi che inaugura la stagione della Scala
Il Don Carlo rappresentato alla Fenice di Venezia nel 2019 (dal sito Teatro la Fenice).

Con il suo spirito cupo e violento, il Don Carlo è una sorta di annuncio del decadentismo

L’opera è dominata da uno spirito cupo e violento, che rende drammaticamente vana ogni speranza. Il cattolicissimo re Filippo II opprime i protestanti dei Paesi Bassi e li manda al rogo sobillato dalla Santa Inquisizione, e intanto si arrovella perché la moglie Elisabetta di Valois non lo ama. Lei era stata promessa al figlio di Filippo, Don Carlo, ed è lui che ama, riamata. Un rapporto platonico ma ugualmente dal peso insostenibile, che resterà sempre e solo ideale, mentre la marchesa di Eboli cerca a sua volta di conquistare l’amletico Infante di Spagna, salvo confessare – per poi essere mandata in esilio – di essere l’amante del re. Il marchese di Posa, amico fedele di Don Carlo, si oppone alle politiche assolutiste di Filippo, ma non riesce a salvare i protestanti di Fiandra e finirà ucciso dagli archibugi del Sant’Uffizio, pur essendo stimato dal monarca. Il loro duetto nel primo atto, la pagina che più è stata rielaborata da Verdi, è uno dei culmini di tutta l’opera, come lo è l’intero terz’atto, aperto dalla formidabile aria di Filippo, Ella giammai m’amò. Il clima è torbido, la tinta oscura; totale la libertà dalle forme tradizionali del canto operistico, ammaliante la sottigliezza della scrittura strumentale. Non a caso Mila vedeva in questo capolavoro una sorta di annuncio del decadentismo, in grado di fare piazza pulita dei vani tentativi di rivoluzionare il genere operistico da parte della Scapigliatura. E non c’è da stupirsi se nella versione 1884 l’Infante di Spagna, che il padre ha deciso di consegnare al boia, alla fine letteralmente svanisce mentre si trova nella cripta del nonno Carlo V, in un’atmosfera quasi esoterica.

L’attualità drammatica dell’opera e il pessimismo di Verdi sulle umane sorti

Con i suoi personaggi dalla psicologia complessa, dipinta realisticamente fra dilemmi interiori e umanissime contraddizioni; con l’impari confronto fra gli individui e una ragion di Stato che non si ferma di fronte alla ferocia e al delitto; con la sua durissima rappresentazione della guerra in nome della religione, condotta fino agli omicidi rituali degli autodafé imposti dall’Inquisizione; con l’evidenza drammatica di come l’assolutismo soffochi non solo la libertà, ma anche l’aspirazione a essa, Don Carlo appare oggi drammaticamente attuale. È davvero un’opera profondamente politica, dominata dal radicale pessimismo del compositore sulle umane sorti, che non concede soverchie speranze neanche a chi vi assiste nel XXI secolo, dopo le illusioni sulla “fine della storia”. La storia non è affatto finita, e Verdi ce lo ricorda con una musica capace come poche di parlare sia al cuore che alla mente.

Terrorismo, Br e stragi: due libri per riflettere sugli Anni di piombo (e non solo)

Se la cronaca ci aggiorna quotidianamente su un uso cinico, spregiudicato della storia, con risse da bar su Dante e ora pure su Tolkien, d’altra parte l’Italia pare un paese perennemente con il fiato corto, dove è quasi impossibile analizzare in modo equilibrato il passato nella speranza di dare più solidità e meno isteria al presente. Una buona occasione per uscire da questo pantano la offrono due volumi appena usciti pieni di spunti per ripercorrere diversamente i cosiddetti Anni di piombo, gli anni del terrorismo e delle stragi.

Luzzatto e l’antropologia delle Br genovesi

Sergio Luzzatto, studioso delle Rivoluzione francese e di Padre Pio, ha appena pubblicato per Einaudi Dolore e furore. Una storia delle Brigate rosse. A parte la ricostruzione storica ben raccontata, Luzzatto dedica la sua attenzione a ricostruire le vite dei terroristi per spiegare a un lettore di oggi, come quei giovani «si erano ritrovati (…) chiusi in un covo a progettare rapimenti, irruzioni, gambizzazioni, omicidi, per fare la rivoluzione e instaurare il comunismo». Protagonisti sono una città, Genova, centro nevralgico del triangolo industriale, e un uomo, un terrorista, Riccardo Dura, nome di battaglia “Roberto”, ucciso a 29 anni, nel corso dell’irruzione dei corpi antiterrorismo dei carabinieri nel covo di via Fracchia, nella primavera del 1980. Una città medaglia d’oro della Resistenza, dove a grandi insediamenti industriali come la Ansaldo e l’Italsider si affianca un fermento culturale ribollente di vitalità, e un ex marinaio con un passato burrascoso tanto da finire in un singolare riformatorio sotto forma di nave ancorata al porto della città, la Garaventa.

Terrorismo, Br e stragi: due libri per riflettere sugli Anni di piombo (e non solo)
La copertina di Dolore e furore di Sergio Luzzatto (Einaudi).

Giovanissimo, Dura inizia a navigare, salendo i gradini delle gerarchie marittime, mozzo, poi “piccolo di camera”, “giovanotto di macchina”, fino al ’74, quando scende per sempre da una nave per entrare, qualche tempo dopo, in clandestinità. Rapidamente Dura sale tutti i gradini delle Brigate rosse diventando il delfino del capo assoluto, Mario Moretti. La colonna genovese si procura fama di spietatezza e di efficienza che destano ammirazione nei settori antagonisti più radicali. Qui avvengono alcuni dei fatti più importanti della storia del terrorismo rosso: il primo rapimento importante, quello del giudice Sossi (1974), l’omicidio del giudice Coco (1976), inizio dell’attacco al cuore dello Stato che culmina con il rapimento di Moro, infine l’omicidio dell’operaio sindacalista Guido Rossa, ucciso proprio da Dura. Siamo nel gennaio del ’79 e l’assassinio di Rossa segna il distacco definitivo delle Brigate rosse dal movimento operaio, passano una manciata di mesi e la vita di Dura viene stroncata per sempre con un colpo di pistola alla nuca. È l’inizio della fine per le Br, si susseguono gli arresti, compreso quello di Moretti (1981), bloccato e portato in prigione assieme a Enrico Fenzi, il professore di letteratura italiana ed esperto di Petrarca all’università di Genova, in via Balbi. Il libro di Luzzatto riesce a restituire vita a un ambiente articolato dove agli operai delle grandi fabbriche di Genova e dintorni si affiancano intellettuali raffinati come Fenzi, criminologi come Giovanni Senzani, un chirurgo come Sergio Adamoli, perfino, oggi potrebbe sembrare impensabile, una cattolica devota come Fulvia Miglietta.

Tobagi e la faticosa ricerca della verità sulle stragi nere e mafiose

Su tutt’altro versante, quello della lunga stagione delle stragi e della difficoltosa ricerca della verità, si muove il libro di Benedetta Tobagi, Segreti e lacune (Einaudi), un viaggio per spiegare come mai, a distanza di decenni, siamo ancora impegnati alla ricerca di una versione soddisfacente. Le bombe a piazza Fontana a Milano, a piazza della Loggia a Brescia, alla stazione di Bologna, quelle sui treni, rimandano, ormai è certo, anche a un coinvolgimento di quegli apparati di sicurezza e informazione, i cosiddetti servizi segreti.

Terrorismo, Br e stragi: due libri per riflettere sugli Anni di piombo (e non solo)
Segreti e lacune di Benedetta Tobagi (Einaudi).

E ha ragione la Tobagi nel mettere in campo una dialettica, quando non uno scontro, tra questi apparati e la magistratura al lavoro su inchieste spesso rivelatesi faticosissime proprio perché più o meno visibilmente ostacolate «da lentezze, gravi distorsioni o depistaggi veri e propri, messi in atto da personale d’intelligence e di altre forze di sicurezza operanti a servizio dell’esecutivo: comportamenti contrati ai principi costituzionali, sovente illegali e non chiaramente giustificabili in termini di sicurezza nazionale o di ragion di Stato, anche se teniamo conto delle necessità vere o presunte imposte dalla Guerra fredda». L’arco temporale del libro va dal ’77, anno di una riforma dei servizi di sicurezza che pure aveva generato qualche ottimismo al momento del suo varo, fino al ’96, quando, con la vittoria del centro-sinistra, sembra terminare una volta per tutte la guerra fredda che aveva voluto fuori dal governo il partito comunista e i suoi eredi, salvo accorgersi che i depistaggi sarebbero continuati su un altro terreno, non meno costellato di morti, quello delle stragi mafiose. E proprio a proposito di queste ultime si stanno delineando  convergenze fra settori degli apparati di sicurezza, mafia stragista e personaggi di spicco di quel terrorismo nero che non era sparito di colpo con la caduta del muro di Berlino come qualcuno aveva voluto farci credere.

Ma Geronimo La Russa la conosce la storia antifascista del Piccolo di Milano?

Di primo acchito c’è una considerazione che ormai appare talmente usurata da non meritare nemmeno le pagine dei giornali: perché i consigli di amministrazione dei teatri tengono in pancia personalità politiche che nulla hanno a che vedere con lo spettacolo, l’arte e la cultura? Sembra un’utopia ma nella fame di poltrone ormai diamo per scontato che l’ex parlamentare, l’assessore sconfitto, il sindaco decaduto o – ancora peggio – il familiare di qualche politico occupino quei posti. Non fa eccezione Geronimo La Russa – figlio di cotanto padre – entrato nel consiglio di amministrazione del Teatro Piccolo di Milano. E fa specie che un profilo così venga tenuto in considerazione per un luogo di quella levatura, anche quando si tratta di cognomi meno altisonanti e visibili.

Ma Geronimo La Russa la conosce la storia antifascista del Piccolo di Milano?
Geronimo La Russa (Imagoeconomica).

L’incontro tra Strehler e Grassi in corso Buenos Aires

Poi c’è la storia. E la storia del Piccolo a Milano è la storia di quello che sono stati Paolo Grassi e Giorgio Strehler. È del 1933 il discorso tenuto da Benito Mussolini presso la Società Italiana degli Autori, in cui invita i drammaturghi a risollevare le sorti del teatro nazionale, facendosi espressione delle grandi passioni collettive. Paolo Grassi aveva 14 anni e solo dopo tre anni dopo viene assunto senza paga come assistente di Angelo Frattini, autore insieme a Dino Falconi della rivista musicale Bertoldissimo. Nel febbraio del 1938 si presenta a Giorgio Strehler a una fermata del tram, in corso Buenos Aires a Milano: «Senta, io la vedo sempre a teatro, evidentemente è una sua passione. Tanto vale che io mi presenti, che ci conosciamo e che ci frequentiamo, visto che abbiamo in comune questo amore. Io mi chiamo Paolo Grassi. […] E io, Giorgio Strehler».

Ma Geronimo La Russa la conosce la storia antifascista del Piccolo di Milano?
Giorgio Strehler nel 1976 (Getty Images).

Grassi cacciato dal GUF e Strehler nella Resistenza

Come racconta Valentina Garavaglia nel suo articolo Tra utopia e riformismo, il teatro pubblico di Paolo Grassi e Giorgio Strehler nel 1941 Grassi mette in scena al Teatro dell’Arte di Milano L’ultima stazione di Beniamino Joppolo e lo spettacolo è un successo, ma un successo scomodo, tanto che su Secolo Sera il critico Gianluigi Gatti, responsabile del GUF, rende nota l’espulsione di Grassi dal gruppo universitario fascista di Milano per attività estranee al gruppo stesso. Anche Strehler, che si era diplomato ai Filodrammatici nel 1940 e nel frattempo aveva girato l’Italia intera recitando in compagnie di tradizione e in gruppi di teatro sperimentale, aveva prestato servizio militare come sottotenente di fanteria, ma dopo l’8 settembre 1943, apertamente antifascista, non aderisce alla Repubblica di Salò e si unisce alla Resistenza. Sotto esortazione del Comitato di Liberazione Nazionale si rifugia in Svizzera ed è proprio a Ginevra, dove incontra e frequenta esponenti di spicco del mondo politico e culturale italiano, quali Luigi Einaudi, Amintore Fanfani, il regista Dino Risi, che Strehler ha modo di coltivare la sua irrefrenabile passione per il teatro, che si intreccerà nuovamente con quella di Paolo Grassi al termine della guerra.

Ma Geronimo La Russa la conosce la storia antifascista del Piccolo di Milano?
Il Piccolo in via Rovello, 2 a Milano.

Geronimo La Russa conosce la storia del teatro? 

Una lapide all’esterno sulla facciata dell’edificio in cui oggi si trova il Piccolo Teatro, in via Rovello 2, collocata dall’Anpi il primo aprile del 1995 recita: «Qui tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 hanno subito torture e trovato la morte centinaia di combattenti della libertà prigionieri dei fascisti. Il Piccolo Teatro ha fatto di questo edificio un centro e un simbolo della rinascita culturale e della vita democratica di Milano». In quel teatro, primo teatro stabile di prosa pubblico in Italia, Grassi e Strehler in sintonia con il sindaco di Milano, il socialista Antonio Greppi, aprono il 14 maggio del 1947 con la messa in scena de L’albergo dei poveri, di Maxim Gor’kij, per la regia di Strehler stesso. La scelta dello spettacolo d’apertura non è ovviamente casuale. Lì dentro c’è l’idea del ‘teatro del popolo’, un teatro inteso come pubblico servizio, costruito sul modello gramsciano, inteso come un fenomeno culturale necessario alla collettività. Quindi la domanda è spontanea: le sa queste cose Geronimo La Russa? E soprattutto, che c’entra?

L’11 novembre 1994 usciva T’appartengo di Ambra, ma a noi non importava un granché: il racconto della settimana

«Ricordati che domani suoni da noi», leggo sul display dell’iPhone mentre, immerso nei miei pensieri più tetri, faccio scorrere tra le mani i titoli dei vinili che ho ordinato da Serendeepity: Fly Or Die Fly Or Die Fly Or Die, il disco postumo di Jaimie Branch pubblicato da International Anthem, il live di Mac Miller registrato per Tiny Desk del 1998, Purple Rain di Prince del 1984, Thriller di Michael Jackson del 1982, Maggot Brain dei Funkadelic del 1971 e Synchronicity dei Police del 1983. Ultimamente hanno ripreso a chiamarmi in parecchi per mettere la musica in giro. Solo nell’ultimo mese ho messo i dischi a matrimoni, feste aziendali, vernissage, compleanni di locali, eventi patrocinati dal Comune. Ho suonato di tutto: dal jazz al rap, dal rock al funk, dall’elettronica ai classici di musica italiana.

Ambra cantava T’appartengo ma tutti noi per lo più la ignoravamo, perché da qualche mese si era sparato Kurt Cobain ed eravamo tutti in fissa con i Nirvana o al massimo con i Green Day, che erano appena usciti con Dookie, il disco che conteneva Basketcase, il pezzo in assoluto che andava in loop dai nostri stereo

Una sera però a una festa, assediato da un gruppo di quarantenni ubriache che avevano ballato tutta la sera come delle ossesse, come ultimo disco della serie, ormai sfinito dalle loro continue richieste, per accontentarle e mandarle via, ho messo T’appartengo di Ambra e anche se l’ho tolta dopo un minuto e mezzo, devo ammettere che è stata un’umiliazione perché uno si danna l’anima per fare un percorso musicale adeguato, studia i cambi per infilare uno dopo l’altro dei pezzi che possano stare bene insieme l’uno con l’altro, e poi la gente vuole ascoltare Ambra. In fondo è sempre stato così, anche verso la fine degli Anni 90 quando mettevamo Smack My Bitch Up dei Prodigy o, che so, Born Slippy degli Underworld, le piste dei locali si svuotavano. La gente generalmente non capisce un cazzo. «La tua carriera da deejay stasera è finita dopo Ambra, Andre»,  mi ha detto una di loro, ridendo, mentre staccavo il jack delle cuffie del mixer.

T’appartengo uscì esattamente l’11 novembre del 1994, 370 mila copie vendute e tre dischi di platino, per il singolo cantato dall’ex stellina di Non è la Rai, all’epoca uno dei fenomeni televisivi di maggior successo del nostro Paese. Clinton era il presidente degli Stati Uniti, in Italia il premier era Silvio Berlusconi e Ruud Gullit, in rotta con l’allora mister del Milan Fabio Capello, aveva nuovamente lasciato Milanello e fatto le valigie per Genova, tornando alla Sampdoria. Ambra cantava T’appartengo ma io non me la cagavo più di tanto, perché c’era Jovanotti e Penso positivo, gli Articolo 31 pubblicavano Messa di Vespiri, i REM Monster, il loro album più punk-rock, e soprattutto c’era il britpop dei Blur e degli Oasis.

Ambra cantava T’appartengo ma tutti noi per lo più la ignoravamo, perché da qualche mese si era sparato Kurt Cobain ed eravamo tutti in fissa con i Nirvana o al massimo con i Green Day, che erano appena usciti con Dookie, il disco che conteneva Basket Case, il pezzo in assoluto che andava più in loop di tutti dagli stereo delle nostre camerette. Proprio questa settimana tra l’altro sono stato invitato al loro private concert per pochi intimi ai Magazzini Generali, dove la band ha dato un assaggio di quello che farà vedere l’anno prossimo, il 16 giugno all’Ippodromo, per il tour in programma di Saviors, il loro nuovo album in uscita il 19 gennaio 2024, a 30 anni da Dookie e a 20 da American Idiot. E la cosa devo dire mi ha fatto un certo effetto, un po’ perché non avevo mai visto dal vivo i Green Day e l’atmosfera era veramente rock e un po’ perché non entravo ai “Magazza” da almeno 20 anni. Enorme edificio ex industriale in zona sud i Magazzini Generali sono stati per quelli che hanno pressapoco la mia età uno dei locali più importanti della nostra giovinezza, un posto che i primi anni del 2000 era diventato una sorta di mecca di tutti i creativi, degli studenti e di una grande fetta della comunità gay milanese, oltre che teatro dei live underground più importanti che si tenevano in città. Ai “Magazza” si andava il mercoledì perché si entrava gratis, si andava il venerdì alla serata Jetlag, e si andava a sentire i Massive Attack, i Chemical Brothers o altri dj di fama internazionale come Carl Cox o Laurent Garnier.

L'11 novembre 1994 usciva T'appartengo di Ambra, ma a noi non importava un granché: il racconto della settimana
I Green Day ai Magazzini Generali.

Ambra cantava T’appartengo ma a noi non importava granché, perché al cinema uscivano contemporaneamente Pulp Fiction di Quentin Tarantino, Il Corvo con Brandon Lee, Clerks e Dellamorte Dellamore con Rupert Everett, (l’attore che aveva dato il volto al protagonista del nostro fumetto preferito, Dylan Dog, per cui tutti andavamo fuori di testa), un film bruttissimo che noi guardavamo solo per farci le seghe dato che Anna Falchi, il nostro sogno erotico estremo, recitava in un paio di scene completamente nuda. Ambra cantava T’appartengo ma a me non interessava, perché nel mio zaino insieme ai libri di poesia di Arthur Rimbaud c’era il romanzo di un giovane scrittore bolognese di nome Enrico Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, una storia che raccontava per filo e per segno quello che mi stava capitando esattamente in quel momento con Nicole, una mia compagna di classe di cui mi ero perdutamente innamorato.

L’eclissi degli intellettuali e l’urgenza di una rivoluzione culturale

“Lavoro zero reddito intero. Tutto il lavoro all’automazione”. Slogan attualissimo, peccato però che sia apparso sui muri di Bologna nel 1977 nei giorni della rivolta degli studenti universitari che mise sottosopra l’intera città. Erano molto più avanti e spiritosi gli indiani metropolitani di allora degli intellettuali e politici di oggi. Lo ricorda Franco Bifo Berardi, storico attivista e saggista, in una conversazione con il sottoscritto che si riassume in una parola: diserzione. Dei giovani soprattutto (dal lavoro e dal desiderio di fare figli), ma più colpevolmente degli uomini di cultura, dell’intellighenzia.

La classe intellettuale ha fatto la fine della classe operaia: è scomparsa

I tempi velocissimi e distruttivi che stiamo vivendo richiederebbero infatti pensieri nuovi e la mobilitazione quasi fisica di scrittori, artisti, scienziati, cineasti. Il problema però è che la classe intellettuale ha fatto la fine della classe operaia: è sparita come l’idea che compito dei filosofi, per dirla con Karl Marx, sia non di interpretare il mondo ma di cambiarlo. Per trovare una forte tensione di rinnovamento e contestazione dell’esistente, che dovrebbe essere il lievito di una cultura militante, bisogna andare indietro nel tempo. Al movimento del ‘77, appunto, ma ancor più a quello del ‘68, che pure con tutte le degenerazioni e agli eccessi – infantilismo e velleitarismo – è stato un momento di contestazione globale del sistema. “Chiedete l’impossibile”, “una risata vi seppellirà”, ”contro i baroni rossi, neri e a pois” erano slogan che manifestavano un sense of humor oggi completamente scomparso dalle piazze della protesta. Non mancavano i cattivi maestri, ora però sono scomparsi i maestri. Tant’è che se volessimo indicare intellettuali di riferimento per le diverse aree politico-cuturali oggi non sapremmo chi nominare. All’ombra della scomparsa dei maître à penser si scorge la sagoma del critico d’arte e sottosegretario Vittorio Sgarbi.

L'eclissi degli intellettuali e l'urgenza di una rivoluzione culturale
Indiani metropolitani a Milano (giallinovagabondo).

L’esperienza del Gruppo 63 e l’Olivetti

Ma se vogliamo considerare caratteristiche più interne e specialistiche in materia di lavoro culturale, nonché di opposizione alle gerarchie tradizionali, per trovare in Italia un movimento che ha prodotto un rinnovamento radicale dobbiamo risalire al Gruppo 63, da cui scaturì anche la neo avanguardia. Il gruppo di letterati e critici schierati sul fronte dei nuovi linguaggi mediali (la tv, la pubblicità, la pop art), i vari Umberto Eco, Alberto Arbasino, Angelo Guglielmi, Nanni Balestrini poi protagonisti di una stagione culturale nuova che rompeva con la tradizione del neo-realismo, e si sintonizzava con il clima e il sentimento più generale dell’Italia del boom economico. La Rai in bianco e nero era la prima industria culturale del Paese, luogo di sperimentazione, ma anche di fedeltà alla missione di servizio pubblico. Ma da ricordare, perché unica, era anche la circolazione di saperi e intellettuali fra i mondi della cultura e dell’industria. L’Olivetti e il suo profeta Adriano era il porto sicuro di scrittori e poeti (Paolo Volponi, Giovanni Giudici) che diedero vita a una cultura d’impresa capace di creare innovativi prodotti tecnologici (che competevano con IBM), ma anche imprese editoriali (Edizioni di Comunità), fabbriche avveniristiche e insediamenti abitativi modello. Della Rai come di Olivetti restano solo i marchi.

L'eclissi degli intellettuali e l'urgenza di una rivoluzione culturale
Umberto Eco (Getty Images).

L’intellò da Festival

Se la tv pubblica oggi non ha praticamente trasmissioni culturali, la tv commerciale è ovviamente peggio. Anche nella costruzione del “personaggio televisivo”, che attualmente è il prototipo, nel comune sentire, dell’uomo di cultura. Sedersi sulla poltrona di un talk è la condizione indispensabile perché uno psicologo o un filosofo diventi un personaggio da festival. Ovvero nella condizione di monetizzare la propria popolarità televisiva. Con i festival si toccano due tasti dolenti. L’imporsi di una cultura di mezzo – per citare D. MacDonald, autore del celebre e classico Masscult e Midcult – che è una parodia dell’alta cultura.
. E la formazione di compagnie di giro che vanno da un festival della filosofia o della letteratura a quello del mare o della creatività a proporre più o meno la stessa minestra. Servita però con i nomi altisonanti di lectio magistralis o master class. A pagare robusti compensi ai vari Galimberti, Cacciari, Recalcati, per fare tre nomi che sono forse fra i migliori blablatori da festival, sono le fondazioni bancarie. In questo ambito, che è perlopiù turistico, di innovazione culturale, di offerta di modelli alternativi o sperimentali nemmeno si parla. Anche perché essendo i personaggi televisivi l’ingrediente essenziale di una manifestazione che riempia le piazze o i teatri è un pubblico anziano, che come tale guarda la tv, quello che corre ad applaudire. Nei talk da piazza di giovani se ne vedono pochi, di giovanissimi nemmeno l’ombra. Ovviamente ci si dovrebbe chiedere: ma i giovani dove vanno? Nel 1968 e nel 1977 in piazza, volendo colpire al cuore del sistema. Ora invece visto che gli intellettuali vanno in tv e non più a infiammare le aule universitarie, anche i giovani sono renitenti a essere mobilitati e a mobilitarsi. Se non quando le questioni sono molto concrete. E ci sta. Però sia chiaro che se è legittima la protesta contro il caro affitti, piantando le tende in piazze, è allarmante che le questioni ideali non scaldino più menti e cuori giovanili.

L'eclissi degli intellettuali e l'urgenza di una rivoluzione culturale
Massimo Cacciari (Imagoeconomica).

La crisi dell’editoria rappresentata dal successo di Vannacci

Forse il nome Ultima generazione è un chiaro indizio di ritirata ideale e di pessimismo che non riesce più a essere dissacrante ma anche un po’ allegro. Cioè a essere giovani nello spirito. Ma ben poco allegro, per citare anche l’ultimo ma fondamentale caposaldo della cultura, è il mondo dell’editoria, dei libri e anche dei giornali. Del disastro dei giornali di carta parlano i dati diffusionali e la chiusura accelerata delle edicole. Della crisi del libro invece la crescente diffusione del self publising. Dell’auto pubblicazione che ha in Amazon il principale killer dell’industria libraria tradizionale. Il clamoroso successo del Mondo al contrario del generale Roberto Vannacci, unico best seller nazionale dell’anno, suona il de profundis per editori, editor e curatori. Tutti evidentemente incapaci in un periodo di sommovimento epocale di trasformare radicalmente il modo di produrre e vendere libri. È in un simile contesto che forse più che invocare il ritorno degli indiani metropolitani vien da rimpiangere la furia iconoclasta nei confronti di accademie e retaggi culturali che fu del futurismo e dei futuristi capitanati da Filippo Tommaso Marinetti. Ma consapevoli che stiamo parlando di più di un secolo fa. Giusto per ribadire quanto sia polverosa, vecchia e ormai insopportabile tutta la cultura nazionale.

Morto il giornalista e autore televisivo Massimo Ghirelli

È morto Massimo Ghirelli, giornalista e saggista, autore e regista di programmi radio e tv. Ne dà notizia il figlio Parvis, anche lui giornalista: «Se ne è andato con gentilezza, senza disturbare, con l’eleganza e l’accortezza che l’hanno sempre contraddistinto, rendendolo un punto di riferimento ed esempio per amici, colleghi, alunni e conoscenti. Una vita ricca di amore, curiosità, generosità, con al centro la continua ricerca del dialogo e di scambi culturali ed emotivi».

Ideò Nonsolonero, rubrica andata in onda dal 1988 al 1994

Nato a Milano nel 1946, Ghirelli ha ideato e realizzato per sei anni (dal 1988 al 1994) la trasmissione Nonsolonero, rubrica del Tg2 e prima in Italia su immigrazione e razzismo (Premio Mandela 1991). Dal 1985 al 2013 è stato Esperto prima nel Fai (Fondo Aiuti Italiani), e poi presso la direzione generale per la Cooperazione allo Sviluppo del ministero degli Esteri. Consulente per l’informazione di organizzazioni internazionali e di numerose Ong, è stato per 27 anni nel direttivo del Consiglio Italiano per i Rifugiati.

La carriera da giornalista e da docente universitario

Come giornalista ha diretto le riviste Replay e Caffè, ha fondato l’agenzia Migra e ha collaborato a numerose testate nazionali, tra cui La Repubblica (come critico cinematografico) e il Manifesto. Autore di un centinaio di saggi e una decina di libri, tra cui Immigrati brava gente e L’antenna e il baobab, ha insegnato all’università di Algeri (1974-76), tenendo inoltre corsi, master, seminari e conferenze in molte università italiane come La Sapienza di Roma. Dall’autunno 2014, il dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Roma Tre assegnato a Ghirelli l’insegnamento di Cooperazione internazionale, poi assegnato dal 2015 al 2021 anche l’insegnamento di Politica internazionale e delle migrazioni. Nel 2022 è stato docente dell’insegnamento magistrale di Storia e Politiche della Cooperazione Internazionale e nel 2023 del corso magistrale di Cooperazione Internazionale.

Immagini create con l’Ia su Fb: il Salone del libro nella bufera

Doveva essere un post spiritoso per Halloween, invece si è rivelato un boomerang. Almeno su Facebook. Protagonista dell’ennesima polemica è il Salone internazionale del libro di Torino che in occasione della festa ha lanciato una sfida ai propri follower: «Riuscite a riconoscere tutti i costumi di Halloween delle scrittrici e degli scrittori che abbiamo scelto?». E di seguito le immagini realizzate con l’intelligenza artificiale di Kafka in versione scarafaggio, Mary Shelley-Frankenstein e così via. Non poteva mancare certo Stephen King ovviamente in versione It.

 

L’idea non è piaciuta al pubblico social. Non solo perché l’Ia per molti rappresenta una minaccia per l’editoria e per gli scrittori. Ma anche perché, come si legge nei commenti, usare immagini realizzate con l’intelligenza artificiale equivale «letteralmente prende a pesci in faccia una delle categorie che i libri contribuisce a crearli – e a farli vendere», cioè gli  illustratori.

La protesta degli illustratori

Sotto il post appare infatti anche un commento di Egair, associazione di artisti europei. «Scriviamo anche qua che dispiace molto vedere un’istituzione come il Salone del Libro prendere così alla leggera il dibattito sulle Ia. Su Instagram la spiegazione usata è che si è voluto sperimentare, ma generare immagini usando un servizio commerciale pensato per generare immagini non sembra esattamente un uso inedito e sperimentale del mezzo. L’argomento è controverso e dibattuto e sono numerosi gli scrittori che hanno denunciato aziende che offrono servizi di AI per uso improprio dei loro lavori e violazione del copyright. La comunità dei creativi si augurerebbe una maggiore sensibilità e accortezza da una realtà centrale come la vostra». Lo scorso maggio 1000 intellettuali e artisti internazionali avevano pubblicato una lettera aperta online per denunciare i rischi di questa tecnologia. A capo dell’iniziativa Molly Crabapple artista e giornalista, e il Center for Artistic Inquiry and Reporting. Per addestrare una piattaforma di grafica come Midjourney servono dataset con enormi quantità di immagini prese dalla storia dell’arte ma anche da opere attuali presenti sul web ma protette da copyright. Agli autori non solo non è chiesto alcun consenso, ma non sono nemmeno pagati. E oltretutto rischiano di perdere il lavoro vista la concorrenza dell’algoritmo. «Le multinazionali dell’Ia sono pronte a distruggere i mezzi di sostentamento degli illustratori e per farlo utilizzano immagini rubate agli illustratori stessi», ha scritto Crabapple in un comunicato.

Stephen King: «Le opere create dall’intelligenza artificiale sono come il denaro falso dei film»

Lo stesso naturalmente vale per il mondo del cinema e l’editoria. Diversi scrittori Usa si sono ribellati all’idea che l’addestramento dell’intelligenza artificiale avvenga tramite i loro libri, sollevando anche conflitti con il diritto d’autore. Solo qualche mese fa (era il 23 agosto) sul tema era intervenuto anche Stephen King su The Atlantic, la stessa testata che aveva rivelato l’uso di opere di Zadie Smith, Elena Ferrante e dello stesso King per l'”addestramento”. «Le opere create dall’intelligenza artificiale sono come il denaro falso dei film, credibili a prima vista ma non così convincenti dopo un attento esame», scriveva King per definire l’Ia generativa come ChatGpt e Bard. Il maestro dell’horror lasciava poi intendere di non temere questa tecnologia perché i risultati non sono ancora convincenti. E perché il guizzo umano difficilmente sarà replicabile da una macchina. «La memoria dei computer è così grande che tutti i miei romanzi potrebbero stare in una chiavetta», aggiungeva King. «Ma c’è da chiedersi se la somma valga più delle parti. Per ciò che ho avuto modo di vedere, la risposta è ancora no. La creatività non può esistere senza che l’Ia sia senziente. Se questo sarà possibile in futuro, allora anche la creatività con l’intelligenza artificiale potrebbe essere possibile. Considero questa eventualità con un certo terribile fascino». Uno scenario da Blacl Mirror che difficilmente sarà evitabile. «Vietare l’insegnamento (se questa è la parola) delle mie storie ai computer? Nemmeno se potessi», scriveva Stephen King. «Diventerei il re Canuto che impedisce alla marea di salire. O un luddista che cerca di fermare il progresso industriale facendo a pezzi un telaio a vapore».

Fumettibrutti come Zerocalcare: no al Lucca Comics per il patrocinio di Israele

La scelta di Zerocalcare di rinunciare alla partecipazione al Lucca Comics & Games, dopo il patrocinio dato all’evento dall’ambasciata di Israele, è stata presa anche da un’altra fumettista italiana. Si tratta dell’artista Fumettibrutti, pseudonimo della 31enne catanese Josephine Yole Signorelli, che ha annunciato sui social la sua decisione. Anche lei non parteciperà alla famosa fiera del fumetto, che si terrà dall’1 al 5 novembre. E il motivo è anche stavolta il patrocinio dell’ambasciata israeliana.

Fumettibrutti sui social: «Non ci dormirei la notte»

Sul profilo ufficiale di Fumettibrutti, che conta 167 mila follower su Instagram, la fumettista spiega: «Mi dispiace scrivervi che non sarò presente durante i giorni di fiera a Lucca, e il motivo è proprio il patrocinio dell’ambasciata di Israele. Dopo averlo scoperto mi sono presa del tempo prima di decidere cosa fare, e credo che se nella vita si fanno dei compromessi (io stessa ne ho fatti tanti) su questo non riuscirei a dormirci la notte. Perdonatemi in anticipo se non potrò leggere tutti i messaggi, ma devo tutelarmi dal leggere possibili commenti che dicono che in quanto transgender e persona queer Lgbtqia+ non dovrei parlare di Gaza o della causa palestinese. Non dovrei dare alcuna spiegazione al riguardo, ma voglio comunque scrivere una parola di cui parlava sempre anche Michela Murgia, “intersezionalità”».

Signorelli: «Il femminismo ciò che mi rende libera ogni giorno»

E ha continuato: «Significa preoccuparsi per tutte le lotte contro l’oppressione, dei corpi e dei popoli, non solo di quelle che ci fanno comodo. Il femminismo è la chiave di lettura del mondo che mi rende libera ogni giorno, e non si tratta di un dovere per me, è l’essenza stessa della vita. Quindi stelle, mi scuso perché non riusciremo in quest’occasione a tenerci per mano e ad abbracciarci, ma sono sicura che lo faremo sempre e per sempre anche in altri luoghi».