Doveva essere uno dei perni centrali della Nuova Via della Seta, o meglio ancora un hub per collegare le steppe dell’Asia centrale alla dorsale balcanica dell’Europa via Turchia, mediante un crocevia di infrastrutture e rotte commerciali. L’Iran, almeno in teoria, costituisce ancora il cuore di uno dei sei corridoi economici della Belt and Road Initiative. Non a caso è ancora in fase di progettazione una ferrovia per unire la Capitale Teheran ad Ankara. Il problema principale, per Pechino, è che adesso il partner iraniano ha più di un piede dentro la crisi israeliana, e un suo coinvolgimento diretto potrebbe vanificare l’azione diplomatica di Pechino in Medio Oriente.
Nel 2022, le esportazioni cinesi verso l’Iran sono cresciute del 14 per cento toccando i 9,4 miliardi di dollari
Negli ultimi due decenni, la Cina è stata il principale partner commerciale dell’Iran (mentre quest’ultimo solo il 50esimo partner cinese). Nel 2022, le esportazioni verso la Repubblica islamica sono cresciute del 14 per cento rispetto al 2021, toccando i 9,4 miliardi di dollari, mentre le importazioni hanno sfiorato i 6,3 miliardi. Numeri importanti, ancor più considerando lo scambio delle materie prime. Pechino è affamata di petrolio mentre il governo iraniano, che può contare sulla quarta riserva di greggio e sulla seconda di gas al mondo, a causa delle sanzioni della comunità internazionale è interessato ad acquirenti coraggiosi. Proprio come la Cina che, nel corso degli ultimi tre anni, ha triplicato le importazioni di petrolio made in Teheran, passando da una media di circa 324 mila barili al giorno del 2020 ai 770 mila del 2022. Secondo i dati di Kpler, ad agosto Teheran ha esportato quotidianamente in Cina 1,5 milioni di barili, la quantità più alta dal 2013.
Le leve economiche di Pechino per trattare con Teheran
Numeri del genere evidenziano la dipendenza di Teheran dalla Cina e, di pari passo, lasciano intendere quanto sia enorme lo spazio di manovra a disposizione di Pechino per intervenire nella crisi israeliana. Sembra tuttavia che il gigante asiatico non abbia alcuna intenzione di entrare a gamba tesa in Medio Oriente. Al governo cinese, che ha espresso solidarietà per il popolo palestinese, non mancherebbero certo le leve per convincere Teheran ad abbassare i toni. Una su tutte, il ricchissimo accordo di cooperazione strategica della durata di 25 anni raggiunto tra le parti nel 2021 nell’ambito del quale i cinesi investiranno 400 miliardi di dollari in progetti infrastrutturali in Iran, nel tentativo di trasformare il Paese nel cuore pulsante della Bri. Una marea di soldi che rischia di finire anche a Hamas, oltre che a Hezbollah in Libano e agli Houthi nello Yemen. Tutti gruppi che hanno come obiettivo comune la neutralizzazione di Israele, nemico giurato dell’Iran.
La prova del nove di Xi
Un allargamento del conflitto in tutto il Medio Oriente rischia così di far evaporare i piani diplomatici ed economici di Xi Jinping nell’area. Non solo: Pechino ha avuto un ruolo determinante nel portare Egitto, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti nei Brics. Lo scorso marzo proprio grazie alla mediazione cinese si è giunti a uno storico avvicinamento tra Iran e Arabia Saudita, mentre a giugno Xi si è offerto di aiutare il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas, a promuovere i colloqui di pace con Israele. Se l’Iran attaccasse Israele (o viceversa) Pechino sarebbe l’unico attore ad avere accesso diretto a Teheran e la capacità di influenzarne le mosse. Se a quel punto Xi decidesse di non agire – ipotesi da non escludere, dato che il presidente è alle prese con vari problemi interni – diventerebbe chiaro che la Repubblica popolare cinese sa come giocare in tempo di pace, ma non in tempo di guerra. E questo sarebbe un pesante danno d’immagine per la sua leadership.