Mediobanca, i desiderata di Milleri e la partita su Pagliaro

Ci fosse ancora Enrico Cuccia, o il suo fedele scudiero Vincenzo Maranghi, a calpestare i corridoi del piano nobile di via Filodrammatici ora Piazzetta titolata al fondatore, la partita si sarebbe risolta in un attimo. O forse non si sarebbe nemmeno giocata perché, si sa, dentro le mura di quel palazzo valeva la regola per cui i numeri si pesano, non si contano. E soprattutto, almeno nel caso della autorevole maison, sono i controllati a comandare sui controllori. È vero, quella Mediobanca da tempo non c’è quasi più, eppure lo spirito che per decenni l’ha pervasa è duro a morire: indipendenza dei manager corroborata da ottimi risultati, autonomia dalla politica. Nonché appunto dagli azionisti, fossero le tre banche pubbliche di una volta (Roma, Comit e Unicredit) o i nuovi barbari alle porte – citazione in omaggio alla visita di Henry Kravis, una delle mitiche due K di Kkr, a Milano – che al momento vestono i panni più rassicuranti di Francesco Milleri, erede designato da Leonardo Del Vecchio al comando di Luxottica.

Mediobanca, i desiderata di Milleri e la partita su Pagliaro
Piazzetta Cuccia (Imagoeconomica).

L’idea osé di Milleri: indicare il nuovo presidente

Ora succede che, in vista della scadenza ottobrina del cda della più blasonata banca d’affari italiana, il nuovo re Mida di Agordo si sia messo in testa non di comandare, che sarebbe pretesa velleitaria con la Bce che fucile puntato ne controlla le mosse, ma di contare di più. Ha il 20 per cento, e vorrebbe non solo che il nuovo consiglio ne tenesse conto, richiesta più che legittima, ma che come segno tangibile gli riconoscesse il diritto di indicare il presidente. Un’idea talmente osé per l’aurea tradizione dell’istituto che solo a evocarla i numi dell’Olimpo mediobanchesco scagliano fulmini e saette. Anche perché colui che da quasi 20 anni è seduto su quella poltrona passa come il custode del suo spirito primigenio, il depositario delle tavole della legge ricevute in punto di morte da Maranghi, che a sua volta le aveva avute da Cuccia e se possibile le aveva interpretate ancora più rigidamente di quanto avesse fatto il fondatore. Il colui si chiama Renato Pagliaro: ha messo piede per la prima volta in Mediobanca nel 1981 (Piero Angela esordiva con Quark, Alfredino rimaneva vittima del pozzo e Indiana Jones debuttava al cinema) e da allora non è più uscito. E non dovrebbe uscirci nemmeno col prossimo rinnovo del cda, perché al momento non c’è un candidato alternativo che lo possa insidiare.

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Renato Pagliaro e Alberto Nagel (Imagoeconomica).

Da Grilli a Pignatti, da Valeri a Grieco, i candidati scartati

Pagliaro, per chiarire, oltre che il garante di un’ortodossia se pur mitigata dall’usura del tempo, non è un presidente di rappresentanza. È uno che conosce a menadito la delicata macchina della governance dell’istituto, che cavalca le onde perigliose di statuti, comitati, clausole, patti e contro patti almeno quanto gli piace fare su strada con la sua Harley-Davidson. Si capisce bene perché Alberto Nagel, l’amministratore delegato altro prodotto del vivaio interno, non vi voglia rinunciare a cuore leggero. Anche se, fedele a uno dei comandamenti della casa, l’interesse dell’istituzione mai può essere sacrificato a quello del singolo. E infatti, da quando è cominciato il balletto sui futuri equilibri, Pagliaro invita Nagel ad avere in tasca un piano B che preveda la loro separazione. Ma il secondo non ci sente, aiutato anche dal fatto che i nomi proposti da Milleri sono stati respinti al mittente come “unfit”. Certo che se butti nella mischia uno dei tuoi storici consulenti, l’ex ministro Vittorio Grilli, ora banchiere di vaglia con JPMorgan e idolo di tutti i mariti italiani per una sentenza sul suo divorzio che ha fatto cassazione, il no è automatico. Altri papabili sono durati meno dello spazio di un mattino: Vittorio Pignatti, già in consiglio ed ex protagonista della Lehman Brothers italiana nei suoi anni ruggenti; Flavio Valeri, che fu capo di Deutsche Bank in Italia e dava del tu a Merkel; infine Patrizia Grieco, che sarebbe stata la prima volta di una donna alla presidenza in una banca dove, nonostante la divisione di genere ottemperi alle buone pratiche, il comando è maschio al punto che ci si ricorda della moglie del fondatore, al cui fianco mai compariva, solo per la bizzarria del nome: Idea Nuova Socialista. Per mettere d’accordo tutti ci vorrebbe, spiegano gli esegeti, una figura a cui non si può dire di no, tipo Mario Draghi se l’ex premier non avesse deciso di giocarsi un’altra partita altrove. Ma tirarlo fuori è come trovare un ago nel pagliaio. Anzi, nel Pagliaro, che quindi a due settimane dal deposito delle liste resta di gran lunga il favorito.

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Vittorio Grilli (Imagoeconomica).

Le richieste di Milleri sembrano pensate per scatenare la bagarre

Però la tigna di Milleri, che forse inizialmente è stato sottovalutato, ha sorpreso un po’ tutti. Si pensava che, morto Del Vecchio, il manager umbro tenesse la pratica in letargo e si limitasse a godere dei pingui dividendi che gli arrivano da Milano. In fondo l’aveva ereditata per un’impuntatura del re degli occhiali, che voleva mettere le mani sullo Ieo, l’Istituto oncologico (altra creatura di Cuccia gelosamente affidata alle cure di Pagliaro), ed è stato respinto senza complimenti. Si pensava che avesse beghe in casa sua tali da dissuaderlo a fare battaglie fuori, visto che almeno quattro eredi Del Vecchio: Clemente, Luca, la moglie Nicoletta Zampillo e il di lei primo figlio Rocco Basilico non hanno ancora digerito il lascito monstre di 360 milioni di euro lasciatigli dal padre-marito. E soprattutto che il Milleri ci abbia aggiunto a carico anche 51 milioni di tasse. Invece, e nel distretto della finanza meneghina si sussurra anche perché spinto dal sempre pugnace Sergio Erede, lo storico avvocato del gruppo, il manager ha alzato il tiro con richieste (presidente, radicale rinnovamento e non maquillage del cda) che sembravano pensate apposta per farsi dire di no. E dunque scatenare la bagarre. Come andrà a finire lo si scoprirà presto. Per ora grandi brividi non ne corrono, se non sapere cosa sceglierà Agordo: lista lunga o lista corta, sempre di minoranza ovviamente se no chi li sente a Francoforte.

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Francesco Milleri (Imagoeconomica).

Il silenzio del convitato di pietra Caltagirone

Dimenticavamo. Nella vicenda c’è anche un altro protagonista, un convitato di pietra che per ora resta silente, senza però rinunciare a muoversi sottotraccia. In fondo lui, Francesco Gaetano Caltagirone, ha sempre sostenuto che la partita che gli interessava si giocava a Trieste e non a Milano, per quanto Generali e Mediobanca abbiano un rapporto di colleganza simile a quello della conchiglia col paguro bernardo. In fondo controlla pur sempre il 10 per cento dell’istituto, quindi impensabile possa restare indifferente. Ma siccome è dotato, oltre che di tanti soldi, di raffinata sagacia, si guarda bene dall’infilarsi in una tenzone il cui esito rischia di evocare gli spettri della battaglia persa a Trieste. Del resto gioca sui tempi lunghi, convinto che l’allora vittoria di Piazzetta Cuccia in Generali sia di Pirro e che inevitabilmente, basta saper attendere, gli assetti di quella che una volta si chiamava la galassia del Nord siano destinati a cambiare. Viene in mente di quando Maranghi, ogni volta che Mediobanca era sotto schiaffo (vuoi per la politica, vuoi per l’intraprendenza di qualche capitalista di ventura poi finito male), riversava su Cuccia le sue paure. Che il grande vecchio bonariamente irrideva. «Caro Vincenzo, è caduto l’impero romano vuole che non cada Mediobanca?». Sì, cadrà certamente anche Mediobanca, almeno questa che per certi versi, almeno nei suoi uomini, mantiene un filo con la stagione che fu. Ma non adesso, si dia tempo al tempo. Intanto i barbari alle porte devono restare ancora accampati ad aspettare.

Mediobanca, i desiderata di Milleri e la partita su Pagliaro
Francesco Gaetano Caltagirone (Imagoeconomica).