Citazionismi, snobismo e una critica generosa. La scena indipendente tra gli Anni 90 e i 2000 dava segni di effervescenza. Poi quasi tutti i suoi protagonisti si sono ritrovati o in un talent o a Sanremo.
Pare che al devastato, decrepito Morgan non sia ancora passata: «Un Bugo me l’ha messo in ****». Come a dire: mi sono inventato tutta quella sceneggiata per attirare l’attenzione e invece chiamano lui, un nessuno, uno miracolato da me.
Questo pensa e dice Morgan, alfiere di certa presunta alternativa Anni 90, dell’amico Bugo, esponente della presunta alternativa Anni 2000.
Lavorare con Morgan dev’essere deprimente, ma questo Bugo chi l’aveva mai sentito prima? E che dimostrazione di talento in un Sanremo per il quale è ricordato, verrà ricordato unicamente per la sua uscita di scena? In questo stanno i limiti dell’ineffabile indie italiano, una scena che c’era e non c’era, alla quale ogni esponente mostrava o fingeva di dissociarsi e chi scrive lo sostiene da fonti dirette: «L’indie? Non so che sia e comunque non ne faccio parte». Tutti così. Una scena che non c’era perché non ha mai fatto gruppo, perché opportunamente imprecisata, poteva entrarci di tutto, il reduce con smanie terroristiche, il sentimentale, l’emulo battistiano. Ed è una scena Fenice che non è durata, che era nata per non durare, per rifluire.

BUGO, IL NUOVO BECK, E GLI ALTRI
Bugo all’inizio degli Anni Duemila passò, complice una critica musicale incredibile, per la “nuova grande cosa” dell’indie nazionale: il nuovo Beck, il nuovo genietto incomprensibile; era solo un ragazzo che cercava di spacciare le scarse risorse artistiche col pretesto della bassa fedeltà, dell’approccio stralunato. Altri si segnalavano per la critica sociopolitica, come tali Offlaga Disco Pag che oggi nessuno più ricorda, a cavallo tra Cccp e Stato Sociale.
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Poi i Baustelle, con sofisticati giochi citazionisti, ecco una costante della scena che non c’era, il citazionismo, sicuramente anglosassone ma di preferenza teutonico, il risalire snobisticamente fino all’immancabile estetica berlinese di Bowie o addirittura al Krautrock. I Tre Allegri Ragazzi Morti, a metà tra musica e arte figurativa, i primi a usare l’espediente delle maschere: ma cosa hanno lasciato di saldo, di sfruttabile ai fini di una continuazione artistica?
L’EFFERVESCENZA DEI PRIMI 2000
Sì, nei primi Duemila si respirò una brezza di libertà con l’effervescenza dei gruppuscoli, degli artistoidi, delle etichette minimali. Ma erano i presupposti a mancare: appena usciti dalla nicchia, tutti si lasciano sedurre dalle sirene delle major, del sistema, e, vuoi o non vuoi, si normalizzano, si adeguano. Hai voglia a dire «noi restiamo gli stessi», non c’è margine, non c’è scelta. Le possibilità della Rete, i myspace, i canali diversificati servono per nascere, ma nessuno vuole vegetare sul web, la visibilità è quello che cercano tutti e ci mancherebbe, un artista vuole farsi conoscere, ascoltare e, perché non dovrebbe, avere successo, una carriera. Anche Bugo firmava per una etichetta importante ed era il bacio della morte: nella scena che non c’era, la generazione dei Millennial anche musicale non era dura abbastanza, non era pronta a reggere certi pesi, certe pressioni, era incline, come dice Breat Easton Ellis nel recente Bianco, «all’estetica dell’autovittimismo». Tutto dovuto!, ma alle condizioni del “martire”: e se il dovuto non arrivava, ci si ripiegava ancora di più in un vittimismo fetale.
ALLA FINE CORRONO TUTTI A SANREMO
Bugo dopo 20 anni va a Sanremo, ma non in modo trionfale e il suo nuovo disco, del quale nessuno parla anche se lo invitano in tutte le trasmissioni, suona come il pop più innocuo, suona come Ermal Meta. Tra Beck e Celentano, questo Bugatti? Ma su, non scherziamo. Uno che allo sbarco con una major si perde, uno che cita quale modello Vasco Rossi. Ma Vasco Rossi rischia sulla sua pelle e a Sanremo davvero se ne frega di tutto sì: per lo meno, sa come cavalcare la tigre. Bugo, distrutto dalla pressione di un Morgan completamente andato, non regge, fugge. Dieci milioni di visualizzazioni! Ma per farci cosa? Vittorie di Pirro, incomprensibili come lo era l’indie: quale controcultura se è tutto mischiato, tutto compromesso? Anche la scena rap e trap si riveste di indipendenza, ma dopo un po’: Sanremo, corrono tutti a Sanremo. In cosa sarebbero diversi, alternativi, indipendenti gli Ex Otago; In cosa Levante, una che in due anni ha attraversato X Factor e Festival?
INDIE TRA PRESUNZIONE E CITAZIONISMO
Indie come presunzione. Citazioni di citazioni, evocazioni di Majakovskji, rumore e oscurità di stampo americano: va bene, ma qual è il confine tra arte e presunzione, quale tra complessità e pesantezza? Non saranno solo canzonette, ma hanno per forza da essere macigni? E l’indie rifluisce, cerca il baraccone.

Cerca anche il passato, inesorabilmente. Un altro che si faceva largo in quegli anni, vicini, così lontani, era Dente: subito consacrato come “il nuovo Battisti“. Ma ce l’avete un minimo di decenza? E il nuovo Battisti è già imbozzolato, crisalide di ritorno, e da quella dimensione non esce più. Alla fine, quello che sarebbe risultato latitante era proprio il carisma, la capacità di durare: ci sono ottime enciclopedie della musica italiana, dove però lo avverti lo sforzo di allungare il brodo, di dire qualcosa quando si arriva agli Anni Duemila, gli anni dell’indie che c’era e non c’era. E quella ambiguità fu la sua effimera fortuna e insieme la sua condanna precoce.
LA CRISI DEGLI ANNI 10
Intanto, arriva un’altra crisi, quella degli Anni 10, e tutto si rimescola per confondersi ulteriormente. L’indie si rinserra in uno sperimentalismo sempre più derivativo e a volte spiraliforme. Sono appena usciti, come a inaugurare un nuovo decennio, alcuni dischi da artisti post indie, anche se datano da due decenni e oltre. Come i Jennifer Gentle o Julie’s Haircut che, in modi diversi, avanzano proposte sempre più interlocutorie, dove i generi si attraversano e si affastellano, con risultati non sempre comprensibili. Vanno molto di moda i Calibro 35, il cui elemento forse più riconoscibile, il 44enne Enrico Gabrielli, è però di stanza a Sanremo in varie forme, da direttore d’orchestra ad arrangiatore a compositore. E i celebrati Calibro 35, oggi in cerca di evoluzione, sono usciti rincorrendo l’immaginario cinematografico tra i 60 e i 70, operazione celebrata come squisita riscoperta culturale laddove i maestri del genere, i fratelli Guido e Maurizio de Angelis, restano in fama di colonnari sonori d’evasione. Ma perché se i Calibro 35 riprendono Trovajoli sono filologi mentre se lo fa il vecchio Renato Zero (in origine davvero indipendente, controculturale, fino a precoce normalizzazione), sarebbe patetico?
PIÙ CHE INDIE, MAINSTREAM
La scena indie è talmente vaga da non finire mai, è un mutaforma un po’ paragnosta, che trasmette geneticamente quel non so che approssimativo e snobbetto. Oggi i nomi di domani si chiamano Lucio Corsi, Fulminacci. Ma Lucio Corsi è uno che ha scoperto il glam, uno che, se gli chiedi a chi si ispira, risponde dritto: Renato Zero. E Fulminacci è il prototipo ideale da celebrare al premio Tenco, dove tutti gli anni premiano Capossela, quanto di più mainstream. E lo chiamano indie.
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