C'èè modo per riconoscerli, decrittarli, salvarsene, insomma non cascarci? Gli orchi dicono che con la "cultura non si mangia". Ma perché vogliono mangiare noi.
Alle origini del sostantivo intelligenza c’è la comprensione: intelligere, intus-legere, leggere dentro, cioè capire. Io capisco in profondità quello che mi accade attorno. Esistono tanti tipi di intelligenza, come usa dire in questi anni: ci sono autori che hanno fatto fortuna e rasserenato schiere di indolenti isolando intelligenze speciali che a loro dire non necessiterebbero di particolari training per risplendere, di nessuno sforzo. Per esempio, l’intelligenza emotiva. Di tutte queste intelligenze, per la maggior parte afferenti al concetto di empatia, al sentire comune, quella politica sarebbe la massima espressione. Intelligenza politica come capacità di intercettare le paure e i desideri della folla in un dato momento, da cui l’evidenza, come notavano l’’altro giorno in tanti sui social, che Silvio Berlusconi l’abbia del tutto persa quando ha dichiarato in un incontro a sostegno della candidata in Calabria Jole Santelli che «in 26 anni» non gliel’abbia «mai data».
SILVIO COME AMADEUS: NON HANNO NEMMENO LE PAROLE
Non aver capito quanto il clima sia cambiato e che definire una donna per la propria appetibilità sessuale sia divenuto intollerabile è il segno di una sempre minore presa sulla sensibilità dell’elettorato, anche di un elettorato di centro destra, insomma morbido sul sessismo come in questo caso. Lo stesso sta accadendo a Sanremo, dove infuria da giorni la polemica attorno al presunto sessismo di Amadeus per quella infelicissima definizione delle co-conduttrici («tutte belle donne»), che in realtà, probabilmente, è solo espressione di pura ignoranza, quel genere di «mancanza di parole», di lessico, di apertura mentale, che derivano dal non aver compiuto un percorso di studi regolari.
L’ABBIGLIAMENTO DEL POTERE E LA PARODIA DEL MASCHIO
L’intelligenza, perfino quella presuntamente emotiva, si nutre e si sviluppa nella cultura. L’altro giorno, colleghi di un quotidiano che, come quasi tutti ormai, vanta una declinazione televisiva online, sono venuti in facoltà a chiedermi un’opinione sulle scampanellate impromptu del leader della Lega Matteo Salvini e sul linguaggio e sui gesti dei condottieri politici della storia. Comportamenti, abbigliamento, usi: c’è modo per riconoscerli, decrittarli, salvarsene, insomma non cascarci? La vestizione del potere mi ha sempre molto interessata, anche nei gesti. I paraphernalia dell’uomo solo al comando: cappello o no (John Kennedy), giacca e quale (Mao Ze Dong), l’abbigliamento militare (nessuno di loro vi resiste, anche e soprattutto se non hanno mai fatto parte di un corpo e magari, quando ancora esisteva la leva, sono stati riformati. L’assunzione dei segni dell’autorità altrui pare irresistibile; in hoc signo vinces, avete presente il genere), e poi la gestualità, la mimica, pensate solo a Mussolini con quella mascella protrusa, quella parodia del maschio tutto d’un pezzo. Ma la domanda di fondo è ancora un’altra. Esiste una procedura per farsi duce, un manuale d’uso, una ricetta? Dove ci si prepara, dove si studia? Il modello è replicabile o anche, a conoscerlo, evitabile?
IL DITTATORE ARRIVA AL COMANDO PER TUTTO TRANNE CHE PER MERITO
Poco prima di Natale, sul tema è uscito un saggio di Frank Dikotter, professore di sociologia dell’università di Hong Kong e già autore di uno studio su Mao: «How to be a dictator: the cult of personality in the Twientieth Century». Prendendo in analisi le figure di Hitler, Stalin, Mussolini, Mao, “Papa Doc” Duvalier, Nicolae Ceasescu e Mengistu Hailé Mariàm, Dikotter evidenzia caratteri simili: la nascita oscura, la frustrazione giovanile (guardatevi attorno anche adesso, nel nostro paese: la maggior parte dei gerarchi minori del momento erano il classico “sfigatone” della scuola, invelenito e in cerca di rivalsa), l’ascesa al potere per combinazione, caso, colpo di fortuna, insomma per qualunque accidente ad eccezione del merito.
IL CONSENSO TRASFORMA IL REGIME IN RAPPRESENTAZIONE
Fingendo modestia, spirito egualitario (io sono come voi, mi mostro a cavallo dell’aratro, in spiaggia, in maniche di camicia allo sportello del comune sezione anagrafe), il dittatore coltiva il culto di sé: le donne ma anche gli uomini si sentono sopraffatti in sua presenza; gli scolaretti ne cantano le lodi di padre della nazione e gli artisti lo incensano a fama imperitura. Il dittatore di solito arriva equipaggiato di un’ideologia e di una mitologia di facile presa (il walhalla, l’arianesimo, i riti celtici) ma, non possedendo alcun principio se non la smania di potere, la trasforma subito in burletta o in pura rappresentazione, che è quanto capisce meglio e meglio sa mettere in scena, essendo imbevuto di cultura popolare, come peraltro tutti noi. Per quanto si finga scrittore o filosofo, è raro che i suoi scritti possiedano un’effettiva validità di pensiero, e i suoi “libretti rossi” o le sue guerre sono dei real fake, come si direbbe oggi cioè una congerie di frasi ad effetto e di aforismi colorati. Se dittatore di sinistra, tende a mettere in pratica riforme radicali che portano il paese alla fame; se di destra, porta il paese in guerra, con le stesse conseguenze oltre a una sonora sconfitta (la ragione si mette in moto tardi ma tende a trionfare). È sempre attorniato da sicofanti, da adulatori della peggior specie, meglio ancora se ignoranti, caratteristica che il dittatore ritiene una virtù. Privo di amici, subito impaurito dalla stessa macchina mostruosa del consenso che ha creato, diventa presto paranoico. Di solito fa una fine orribile.
Il TIRANNO DI OGGI VESTE PANNI CHIC E HA MODI DA STAR
«Non vengo a piangere Cesare», figurarsi: morte al tiranno, anche quando, come adesso, veste panni chic e adotta modi da star. Il culto del dittatore del ventesimo secolo si nutre delle stesse modalità e delle stesse logiche che regolano il mondo dello spettacolo e la creazione degli attori: apparizioni calibrate, abbigliamento studiato nel dettaglio a fini simbolici, uso accortissimo dei social, cioè della “bestia”, come la definisce Salvini, e sarebbe bene andare a rileggersi Orwell e il suo 1984 per capirne le dinamiche di controllo e manipolazione. «La prima volta che vidi Hitler, con quei baffetti, pensai che imitasse me», osservò Charlie Chaplin mentre si preparava a girare Il grande dittatore: da attore e autore di genio, aveva intuito che la macchina della propaganda hollywoodiana e quella del nazismo nascente agivano nello stesso modo, e che il dittatore del Ventesimo Secolo non avrebbe dovuto imitare le gesta di Giulio Cesare, ma modellare il proprio sguardo su quello di Clark Gable. Diventare seduttivo, misterioso come un divo, calibrare uscite e presenze a seconda del momento politico, come un attore con il nuovo titolo; saper dosare le parole, ma soprattutto usarle.
L’ORCO DICE ” CON LA CULTURA NON SI MANGIA” PERCHÉ VUOLE MANGIARE NOI
Dopo l’ingresso dei carrarmati sovietici a Praga, il grande poeta e drammaturgo inglese Wystan Hugh Auden descrisse così l’agosto 1968: «L’orco fa quello che può fare un orco/imprese affatto impossibili per l’Uomo/ma c’è una preda al di là del suo dono/l’orco non può appropriarsi del Discorso: attorno a una pianura soggiogata/in mezzo a gente uccisa e disperata/l’orco cammina e sventaglia il suo brando/tronfio e impettito, ma sproloquio sbavando». L’orco scrive libri, discorsi, dichiarazioni: talvolta, come Stalin, può possedere le case editrici e anche tutte le librerie e imporre che il proprio ritratto sia pubblicato sul frontespizio di ogni libro: ma non possiede il Verbo, e il suo discorso suonerà sempre falso. Per questo è fondamentale ascoltare bene che cosa dice, e cercare di capirlo a fondo. Per questo, serve aver letto, studiato. Per questo, gli orchi odiano le scuole e dicono che «con la cultura non si mangia». Vogliono mangiare noi.
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