I giudici hanno riconosciuto che quello di un conducente che aveva lavorato per sei mesi con la piattaforma era un rapporto di lavoro subordinato.
La Gig economy cade un pezzo dopo l’altro. Ma non di fronte alla politica che spesso ha evitato di regolare le nuove attività economiche legate alle piattaforme online, ma a colpi di sentenze dei tribunali. Dopo che a gennaio la Corte di cassazione italiana ha definito quello dei rider lavoro subordinato, il 5 marzo è arrivata la Cassazione francese a dare ragione a un autista Uber che chiedeva di considerare il suo come un rapporto di lavoro dipendente. Una sentenza destinata con molta probabilità a condizionare anche le cause future.

(Daniel LEAL-OLIVAS / AFP via Getty Images)
LA CAUSA DELL’AUTISTA CANCELLATO DOPO SEI MESI
Il caso portato di fronte alla corte di Cassazione francese è il ricorso da parte di un autista che ha usato la piattaforma di Uber dal 12 ottobre 2016, dopo aver affittato in leasing una vettura da una società anch’essa partner di uber, ma classificata ufficialmente come auto utilizzata per il trasporto dei taxi. Uber, spiega la sentenza del tribunale francese, ha disattivato il suo account dopo pochi mesi, nell’aprile del 2017. L’attività dunque è durata appena sei mesi. Ma dopo la disattivazione dell’account l’autista ha presentato una causa chiedendo alla società di ridefinire il rapporto come un rapporto di lavoro dipendente e quindi pagare la parte salariale ancora non corrisposta e anche l‘indennità di fine rapporto.
IMPOSSIBILE CREARSI LA PROPRIA CLIENTELA E SCEGLIERE LE CONDIZIONI DI LAVORO
Già la Corte di Appello aveva chiarito che diventare “partner” di Uber, come la società definsice i propri autisti, significa non poter decidere liberamente né sull’organizzazione del lavoro né sulla scelta della clientela, ma affidarsi quasi in toto alla piattaforma. Questo significa anche che l’autista non può crearsi una sua propria base di clienti, né di fissare termini e condizioni per il proprio servizio di trasporto.

UBER DÀ ISTRUZIONI, SUPERVISIONA E IMPONE SANZIONI
Le tariffe, in particolare, sono decise da un algoritmo che le collega a un particolare percorso e nel caso in cui l’autista decida per una strada considerata dall’algoritmo meno efficiente allora vengono ritoccate. Secondo i giudici questo prova che Uber fornisce istruzioni al dipendente e che supervisiona la sua attività. Infine, il nodo che ha portato all’interruzione dell’attività dell’autista: la piattaforma può cancellare l’account di un driver dopo un certo numero di richieste di corsa non accettate. Dopo tre proposte di corsa a cui l’autista non risponde, viene inviato il messaggio “Sei ancora lì?”. E a questo punto se non vuole accettare le richieste, viene invitato a disconnettersi dalla piattaforma. La piattaforma può imporre disconnessioni temporanee o anche cancellazioni tout court. Possibilità che nella cornice del diritto del lavoro generale corrispondono al potere di sanzionare o licenziare il lavoratore.
UNA CAUSA DI APPENA 3MILA EURO CHE CAMBIA TUTTO
Tutto questo ha portato la Corte a definire quello dell’autista «un’attività fittiziamente indipendente» e a condannare Uber a pagare 3mila euro all’autista, oltre alle spese legali. Ma Uber ha perso molto di più in questa causa da poche migliaia di euro e per sei mesi appena di lavoro, cioè la possibilità di operare fuori dai termini del diritto del lavoro francese applicato alle aziende con lavoro subordinato. Ora tutti i suoi autisti possono rifarsi alla sentenza e essere considerati lavoratori dipendenti. E questa decisione avrà certamente eco anche fuori dai confini della République.
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