Il Festival è vecchio, televisivo, spompato ma è ancora un privilegio che dovrebbe essere guadagnato. Non bastano quattro volgarità spacciate per libertà d'espressione e la mera appartenenza alla "scena rap" per salire su un palco dove, male che ti vada, ti vedono in 10 milioni.
Non c’è Festival senza polemiche, le canzoni ormai non interessano più a nessuno e senza diatribe l’azienda-Sanremo va in perdita. Per cui ci hanno provato prima spingendo la controversa Rula Jebreal, il cui sponsor è Lucio Presta, lo stesso di Amadeus, di Roberto Benigni e di molti altri (tra cui Matteo Renzi): ma la faccenda si è sgonfiata in fretta. Poi hanno riesumato la Rita Pavone sovranista, ma anche qui la cosa sapeva di giurassico ed è finita alla svelta.
Allora ecco un altro piccolo caso, un casino, provvidenziale come manna dal cielo. È il rapper smascherato Junior Cally, uno che fino a ieri stava nella nicchia adolescenziale e oggi è sulla bocca di tutti per alcuni versi, chiamiamoli così, dal crudo approccio sessista, qualcosa che, volendo nobilitare, ricorda il vis grata puellis di latina memoria (ci arriviamo tra un attimo). «Ma li ha scritti tanto tanto tempo fa, quando era ancora giovane e ingenuo», dicono gli zelanti difensori della specie rappettara. Tanto tempo fa, quando? Tre anni fa. Prosit.
Ma ci siamo: ecco il senso della polemica, sta tutto in un contorcimento all’italiana ovvero le vestali del politicamente corretto, tutte Daspo ai pensieri e parole, che per una volta difendono la libertà d’espressione nel nome dell’arte; mentre gli apostoli altrettanto fastidiosi della scorrettezza consacrata, del parlar chiaro e sboccato comunque e sempre, anche in tram, una tantum si scandalizzano e dicono no, questo qui al Festival, roba per famiglie, di perbenismo griffato servizio pubblico (che ci sia ciascun lo dice, cosa sia ormai nessun lo sa), non ci può stare. In mezzo sta lui, lo Junior, che, colta la palla al balzo, fa il prezioso: ah, potrei anche non andare, io vorrei, non vorrei, ma se vuoi ci vado… Insomma deve capire, lui o chi per lui, se si noterà di più mancando o andandoci ma da vittima, secondo sarcasmo morettiano.
PARAGONARE JUNIOR CALLY A VASCO ROSSI? UN’ERESIA
È così importante? Certamente no, nel senso generale dell’universo; assolutamente sì nell’economia globale del Festival, che si nutre di bombe di cartone e comunque finisce, fatalmente, per rispecchiare un tipico carattere nazionale che è quello, a 360 gradi, della disinvoltura morale, dell’essere coerenti nell’incoerenza, nel sacrificare un rigore logico, etico, alla faziosità comunque sia. C’è chi fa il bacchettone e c’è chi si indigna per l’indignazione: ma come, per due parole un po’ sopra le righe vogliamo privare il Festival degli incartapecoriti dell’aria fresca, dello spiffero rapper, dell’irriverenza creativa? Ma cosa c’entrino qui le sacre ragioni del rap, è arduo capire.
Non è una provocazione, è la cazzata di un ragazzotto cinico per impressionare ragazzini infoiati
Così come, in effetti, è faticoso arguire come possa un Festival che si vanta di sposare ogni anno valori e cause sociali le più disparate, corrette, urgenti e opportune, accogliere come un prodigio uno che finora è conosciuto squisitamente per le seguenti perle: «lei si chiama Gioia, ma beve poi ingoia / balla mezza nuda, dopo te la dà» (…) «me la chiavo di brutto mentre legge Nietzsche / lo prende con filosofia». Signori, siamo seri: robetta del genere è puerile e non fa nessuna paura, non turba nessuno, siamo d’accordo, non facciamo un gigante di una pulce. Ma non si può neanche esaltarlo in quanto tali siccome «il rap è una forma d’arte estrema»: e con ciò? Sarebbe questo il modo di svecchiare un Festival, conveniamone pure, incartapecorito? E, per favore, non riesumiamo sempre il solito Vasco Rossi «che arrivò ultimo e poi sappiamo tutti come è andata».

Siamo seri, per pietà, non può sempre valere tutto, non può ogni volta passare in cavalleria il più sconclusionato dei paragoni. È perfino imbarazzante doverlo precisare: ma come fanno a stare sullo stesso pianeta (e sullo stesso palco) versi che parlano della dispersione esistenziale di chi si troverà al Roxy Bar, ognuno col suo viaggio, ognuno diverso, ognuno in fondo perso per i fatti suoi, o di tutte le volte che, con la testa fra le mani, rimandiamo tutto a domani, perché oggi è troppo, oggi non ce la facciamo più, con uno che «si chiava di brutto una che beve poi ingoia»? Non è una provocazione, è la cazzata di un ragazzotto cinico per impressionare ragazzini infoiati. È talmente evidente!
SANREMO È UN PALCO CHE DEVE ESSERE MERITATO
E svecchiamolo pure, ‘sto Festival (ma ci riusciranno mai davvero?), ma per favore senza portare come giustificativo le facce segnate o triturate degli Zarrillo e delle Pavone: anche loro hanno diritto di esistere, e se bene o male sono in pista da decenni una ragione ci sarà pure; vedremo se Junior Cally avrà vita altrettanto lunga con le sue amiche che «lo prendono con filosofia». Disturbante? Nuova onda? Sovversivo? Ma che si deve sentire!
La mera appartenenza alla mitizzata “scena rap”, forse non basta per salire su un palco dove, male che ti vada, ti vedono in 10 milioni
No, dai, lasciamo da parte il politicamente corretto e scorretto, concentriamoci sul senso ultimo di qualcosa, usiamo per una volta il rasoio di Occam: se il curriculum è questo, di quattro volgarità da scuola media e la mera appartenenza alla mitizzata “scena rap“, forse non basta per salire su un palco dove, male che ti vada, ti vedono in 10 milioni, ti danno 50 mila euro solo per esserci e ti fanno poi razzolare concerti e serate. Sanremo è vecchio, televisivo, spompato ma è ancora un privilegio; bisognerebbe meritarselo un minimo, altro che “gioia troia che beve e poi ingoia”.
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