Eruzione del Vesuvio del 1944: alba nera rivestì a lutto la città di Salerno

All’alba del 22 Marzo del 1944 il cielo stranamente continuò a rimanere scuro, in città si sapeva dell’eruzione del Vesuvio in corso da alcuni giorni, nonostante questo nessuno si trovò pronto a fronteggiare un fenomeno mai visto fino allora a Salerno e mai più replicato. Fu un’alba mancata perché dalle cinque circa sulla città si riversarono un’intensa pioggia di cenere e lapillo di natura vulcanica che non permise al cielo di far chiaro sul golfo. La grandezza delle ceneri che piovvero quel giorno fu di dimensioni molto varie. In prevalenza cadde una coltre polverosa, nera, minuscola, leggera quasi che fluttuava nell’aria prima di depositarsi con lentezza. A questa polvere galleggiante nell’aria si aggiunsero lapilli di dimensioni grandi come chicchi di sale grosso che cadevano a pioggia, se raccolti al tatto si percepivano caldi, mentre alcuni di pari grandezze, si poggiavano a terra ancora incandescenti. Questi cadendo tracciavano la coltre nebbiosa con una scia rossastra, tra il nero imperante il rosso strisciante rendeva il paesaggio come un antro infernale. Dentro questa pioggia multiforme a terra cadevano rade pietre di diversa grandezza, grandi anche quanto una noce, senza possedere l’intensità fitta della grandine. In quella coltre grigiastra si avvertiva la caduta dei frammenti più grandi solo con l’udito, come quando una noce o un nocciolo cadono dalla pianta. Già, l’udito era dei sensi quello in cui i testimoni associarono con più frequenza quella strana pioggia, la stessa percezione uditiva fu utilizzata da Curzio Malaparte per descrivere il fenomeno: «con fragore di un carro di pietre che rovesci il suo carico». Così egli descrisse il diluvio di lapilli che si depositò sulla terra e sul mare in quei giorni. Il buio, unito alla percezione di rumori sordi, ingenerò in tanti la concreta paura di patire la stessa sorte subita dai pompeani duemila anni prima. In tutte le case si elevarono preghiere collettive alla Vergine affinché venisse in soccorso. Le loro paure non erano certo insensate, perché proprio il Vesuvio era causa di quell’evento. Dalle 16.30 del 18 marzo 1944 era iniziata un’eruzione, l’ultima a oggi, del Vesuvio con le attività eruttive effusive che si manifestarono con violenza fino al 29 marzo. Il giorno d’inizio ci fu la sollevazione di un gigantesco pennacchio di fumi e ceneri in atmosfera, la colonna eruttiva si misurò tra i 16 e i 22 km in altezza e fu visibile da centinaia di Km di distanza. Il giorno dopo, l’attività eruttiva s’intensificò anche con magma effusivo tanto che colate laviche diressero sugli abitati di San Sebastiano e Massa di Somma, mentre scorie e lapilli in ricaduta investivano l’agro Nocerino-Sarnese. Nei giorni seguenti le ceneri mosse dal vento si spinsero verso est e nord-est arrivando a coprire Cava, Vietri e Salerno con cadute di polveri portate anche a centinaia di chilometri di distanza dal cratere. Quel mercoledì 22, l’intenso fenomeno non permise di uscire all’esterno delle case per diverse ore. Chi dovette avventurarsi fuori lo fece proteggendo accuratamente le vie respiratorie dal pulviscolo caldo e sottile, mentre ombrelli, cappelli, pastrani o coperte furono necessari per proteggere la testa dalla caduta dei chicchi più grandi. Fu necessario anche proteggere i capelli dal concreto rischio che prendessero fuoco se colpiti da lapilli incandescenti. Con quel clima infernale, reso oltremodo buio da quella coltre nera era quasi impossibile trattenersi molto fuori di casa. La cenere cadde fin quasi a mezzogiorno quando il vento cambiò ancora direzione e l’aria si ripulì rapidamente. Quando la pioggia nera si arrestò, lasciò su strade, spiagge, campagne e sulle colline circostanti una coltre depositata di oltre 30/50 centimetri di lapillo. Tra lo sconforto generale si resero visibili i danni arrecati dal malefico evento. Furono i contadini quelli che subirono la rovina maggiore. Soprattutto i poveri contadini dell’agro nocerino sarnese e delle zone orticole a oriente della città, essi persero tutta la verdura invernale ancora nei campi; di cavoli, verze, scarole, finocchi e insalate non si salvo nulla seppellita sotto il manto nero. Neppure andò bene a quanti nelle settimane antecedenti, in previsione della “pastinatura” primaverile si erano impegnati a dissodare i terreni dai residuati bellici, lasciati dispersi nei campi da bombardamenti e sbarco, arandoli con cura. Questi dovettero rincominciare da capo per ripulire le campagne dal lapillo, considerato velenoso per molte culture. Lo raccolsero in fosse scavate per contenerlo o ammucchiandolo al lato dei terreni. Solo dopo la ripulitura, che richiese diversi giorni, si poté di nuovo piantumare. Inoltre nella città ancora diroccata per i danni bellici ci fu il concreto pericolo che la coltre di cenere depositata su tetti e terrazzi creasse un soprappeso tale da generare altri crolli. Questo effettivamente avvenne nei giorni successivi quando alle ceneri si sommò la pioggia vera, aggravando il peso sulle costruzioni, tanto che diversi tetti cedettero di schianto. Cosa che nella notte del due aprile a Canalone, prima che la chiesa si gremisse per la messa della domenica delle Palme, fece crollare il tetto della chiesa di San Gaetano, quel giorno si gridò al miracolo per lo scampato pericolo. Le autorità, militari alleati, di governo allora insediato in città e cittadine riuscirono in breve a far rimuovere i lapilli da tetti, balconi, scale e cortili. Diedero disposizioni di ammucchiare le ceneri per strada o spazi aperti. Per spalare quella coltre nera da tutti i palazzi pubblici e di Governo le autorità impiegarono braccianti giornalieri. La popolazione dovette ancora essere soccorsa con generi alimentari forniti dagli americani, ancora presenti in forze in città. I soli che beneficiarono della pioggia di lapillo furono i muratori e i costruttori edili, i quali si ritrovarono bello, pronto e gratuito, su ogni cantiere materiale da impastare col cemento. Redditizio si rivelò per molti la trasformazione di quel materiale in mattoni di lapilli artigianali poi utilizzati nella ricostruzione. I mezzi dei genieri americani si rivelarono fondamentali per liberare le strade di Salerno da quel materiale, tanto che bulldozer e benne attirarono la curiosità della cittadinanza mentre caricavano di sabbia nera i camion militari. Sorse allora il dilemma di dove scaricare celermente i mezzi. Fu Alfonso Menna a suggerire di riversare il tutto nel tratto di mare tra la piazza della Prefettura e la spiaggia di Santa Teresa. L’ultima eruzione del Vesuvio regalò a Salerno una “promenade” in riva al mare che rivaleggio per anni con quelle famose della Costa Azzurra. Oggi possiamo ancora dire che il lungomare a tre corsie del passeggio che conosciamo fu un tumultuoso dono dell’ultima eruzione del Vesuvio.
Giuseppe MdL Nappo Gruppo scuola Maestri del Lavoro
di Salerno

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