Un tribunale belga ha sospeso il mandato d’arresto per Carles Puigdemont e Toni Comín, ricercati dalla giustizia spagnola. Il voto del parlamento Ue decisivo. Comín a L43: «Siamo perseguitati».
Oggi al parlamento europeo si sente a casa: interviene nelle sedute, partecipa alle riunioni e, quando capita, suona il pianoforte nei corridoi. Ma il suo futuro è incerto e in pochi mesi potrebbe passare dall’ufficio di Bruxelles alla cella di un carcere spagnolo. Il deputato catalano separatista Toni Comín gode per il momento dell’immunità parlamentare, così come i colleghi Clara Ponsatí e Carles Puigdemont. Insieme sostengono dai seggi dell’emiciclo il diritto all’autodeterminazione della Catalogna e rivendicano la libertà per i presos polítics, i compagni in prigione di cui rischiano di condividere la sorte.
UN LABIRINTO GIUDIZIARIO
La vicenda giudiziaria dei politici catalani in esilio (o in fuga, a seconda delle prospettive) ha risvolti grotteschi. Nell’ottobre 2017, subito dopo la Dichiarazione unilaterale d’indipendenza, il presidente Puigdemont e altri quattro membri della sua Generalitat lasciarono la Spagna. Oltre due anni dopo, la magistratura non è ancora riuscita a riportarli indietro e processarli, nonostante tre mandati d’arresto europei. Vizi di forma e discrepanze fra le leggi degli Stati europei hanno finora frenato l’azione dei tribunali spagnoli. Che adesso hanno un nuovo ostacolo: due degli “esiliati”, Puigdemont e Comín, sono stati riconosciuti il 6 gennaio 2020 come membri del parlamento europeo, mentre una terza, Ponsatí, risiede in Scozia e ha preso possesso del seggio dopo la Brexit. La giustizia belga ha quindi sospeso i mandati d’arresto di Puigdemont e Comín, confermando il 17 febbraio una decisione presa in attesa che l’Eurocamera si pronunci, votando sulla richiesta del Tribunal Supremo di togliere l’immunità parlamentare agli incriminati.

Pur con questa spada di Damocle pendente sulla sua testa, Comín ostenta fiducia: non tanto nel voto dei colleghi eurodeputati, per la maggior parte restii ad abbracciare la sua causa, quanto nella giustizia belga: «Siamo convinti che la nostra sia una persecuzione politica, non c’è ragione a livello penale per essere estradati. Siamo tranquilli, è già il terzo mandato d’arresto europeo che subiamo». La differenza con i casi precedenti riguarda i capi di imputazione. Comín e Puigdemont sono ora accusati “solo” di sedizione e malversazione di fondi pubblici, non più di ribellione, il reato difficile da configurare nei codici penali di Belgio e Germania che ha finora frustrato le estradizioni. Anche se l’esito di questo mandato rimane incerto, il rischio di trasferimento in Spagna è senza dubbio più alto.
L’OSTILITÀ DEL PARLAMENTO EUROPEO
Accanto alla battaglia legale, c’è quella mediatica. E su questo livello la richiesta del Tribunal Supremo è un assist per rimettere la questione catalana sotto i riflettori della scena europea. «Dopo due anni di autoritarismo e repressione, sempre più persone stanno capendo che la Spagna ha un problema con la democrazia. Questo va oltre il dibattito sull’indipendenza». L’empatia per il movimento separatista, afferma Comín, continua a crescere nella società civile: «Sono stato con Puigdemont in tante capitali europee. Dappertutto c’è chi lo ferma per incoraggiarlo. Nella nostra battaglia c’è una forte correlazione con la libertà». Il supporto latita però nelle famiglie politiche europee: dei sette eurogruppi soltanto due, Verdi/Alleanza Libera Europea e Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica, hanno espresso vicinanza ai deputati catalani. Ma Comín non demorde e cita gli appoggi trasversali che arrivano dai vari Paesi dall’Unione: «In Belgio ci sostiene l’Nva (nazionalisti fiamminghi di destra), in Scozia lo Scottish National Party, che è di centro-sinistra, e in Germania l’estrema sinistra di Linke. In Slovenia il partito più amico è quello liberale, mentre in Francia hanno firmato un manifesto in nostro favore senatori di tutti gli schieramenti, anche quelli di Macron».
CON LA LEGA NO, CON I 5 STELLE FORSE
Nessun appoggio, invece, dalle forze politiche italiane. Nonostante qualche endorsement occasionale di Matteo Salvini alla causa, il movimento catalanista non c’entra nulla con la Lega: «Le sue parole non hanno valore, l’estrema destra è opportunista e gioca a fare confusione». Del resto uno degli obiettivi del fronte indipendentista è smarcarsi dalla retorica della vanity secession: la secessione dei ricchi dai poveri, che è argomento ricorrente nel dibattito spagnolo e che avvicinerebbe il separatismo catalano alla “Padania Libera” dell’allora Lega Nord. «Ma noi dopo l’indipendenza vogliamo continuare a pagare per lo sviluppo della Spagna del Sud. Non è la mancanza di solidarietà che ci guida, ma la volontà di possedere il controllo politico. In un’ottica di redistribuzione interregionale a livello europeo, poi, la Catalogna non è più in cima alla scala ma a metà». Quando pensa all’Italia, Comín guarda piuttosto a sinistra: «Vedo una grande comprensione del problema catalano fra i deputati del Movimento 5 Stelle, un mondo politico che sto conoscendo poco a poco. Ed è possibile anche un dialogo costruttivo con il Partito Democratico».
INDIPENDENTISTI “DI SINISTRA”
Un orientamento naturale se si considera che, al di là della necessità fisiologica di attrarre ogni simpatia possibile, gli indipendentisti catalani parlano soprattutto alle sinistre d’Europa e caricano i loro discorsi di critica a una Spagna considerata mai veramente libera dal retaggio del Franchismo nelle istituzioni e nella mentalità. La politica catalana si è sempre mossa su due assi perpendicolari: destra/sinistra e separatisti/unionisti. Secondo Comín, figlio di un comunista vecchio stampo e passato nelle fila della sinistra no-global, queste due linee di demarcazione stanno coincidendo sempre più: «Il Partido Socialista de Catalunya si sta muovendo verso destra, mentre quello che era il centro-destra catalano, Convergència i Unió, oggi si riconosce nella coalizione progressista Junts per Catalunya (JxCat), con cui sono stato eletto. In Catalogna l’estrema destra dello spettro politico esiste solo nel fronte unionista e l’estrema sinistra solo in quello separatista».
OBIETTIVO: SUPERARE IL BLOCCO
Mentre i deputati catalani cercano di tessere relazioni a Bruxelles, in Spagna sta faticosamente prendendo corpo l’iniziativa del “tavolo di dialogo” per la Catalogna, condizione imposta al primo ministro Pedro Sánchez dai separatisti di Esquerra Republicana de Catalunya (Erc) per avallare la sua investitura. Ma resta difficile uscire dal blocco: il fronte secessionista non accetterà nulla di meno del diritto all’autodeterminazione, concessione che nessun governo di Spagna può permettersi: «Nessuna delle due parti ha ora la forza per imporsi sull’altra. Dal 2012 comunque esiste in Catalogna una maggioranza robusta di persone favorevoli a un referendum di autodeterminazione, anche se non necessariamente all’indipendenza». Per il momento però le uniche urne in vista sono quelle delle elezioni regionali, le quinte dal 2010, che si celebreranno in primavera. Potrebbe essere questo il momento giusto per una vittoria ideologica a lungo inseguita, il 50% +1 dei voti a partiti pro-secessione: un risultato mai raggiunto in nessun appuntamento elettorale e che sarebbe possibile, secondo l’eurodeputato, a patto di accantonare la rivalità interna fra le due anime dell’indipendentismo, Erc e JxCat. La parte più difficile verrebbe comunque dopo, al momento di concretizzare il consenso ottenuto e negoziare con lo Stato spagnolo: «Il catalanismo esiste da più di 100 anni, ritorna in maniera ciclica ed è una ferita aperta che la repressione spagnola non ha cicatrizzato. Possiamo continuare a lasciarla sanguinare oppure curarla, concedendo il diritto all’autodeterminazione».
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