Manvuller capo ufficio stampa della Camera, più che una selezione pubblica sembra una chiamata diretta

Non sarà un caso che i candidati a capo ufficio stampa della Camera siano passati dai 270 del 2016 ai 57 di oggi. Perché la nomina, a fronte della selezione pubblica, dovrebbe essere neutra, basata su merito e curriculum, ma forse così non è. Sta di fatto che il nuovo capo ufficio stampa di Montecitorio (ruolo che prevede un’indennità da 160 mila euro l’anno) è Filippo Manvuller, giornalista piacentino che in passato è stato portavoce dell’attuale presidente della Camera, Lorenzo Fontana, quando quest’ultimo era ministro della Famiglia nel governo Conte I. Manvuller aveva a lungo collaborato con Fontana anche all’Europarlamento a Bruxelles e ultimamente era responsabile della comunicazione del sindaco di Ferrara, Alan Fabbri (sempre della Lega).

Manvuller capo ufficio stampa della Camera, più che una selezione pubblica sembra una chiamata diretta
Filippo Manvuller.

A Montecitorio dal 2013 viene messa in piedi una selezione pubblica

Insomma, una nomina che ha tanto il sapore della chiamata diretta, su cui non ci sarebbe niente da ridire: un politico ha tutto il diritto di scegliersi come collaboratori le persone che ritiene più valide e di cui si fida. Basta però farlo alla luce del sole. E infatti nei dicasteri il ruolo riservato alla comunicazione è sempre su indicazione del ministro di turno, che sceglie portavoce e capo ufficio stampa. A Montecitorio, invece, dal 2013 viene messa in piedi una selezione pubblica: in quest’ultimo caso i candidati erano appunto 57 e tra questi, guarda caso, c’era l’ex portavoce del presidente leghista. «Il suo nome, fortemente voluto da Fontana, ha avuto la meglio su una short list composta da 12 nomi (sei donne e sei uomini), rimasta segreta», ha scritto il Foglio.

Manvuller capo ufficio stampa della Camera, più che una selezione pubblica sembra una chiamata diretta
Il presidente della Camera Lorenzo Fontana (Imagoeconomica).

Menichini dalla Boldrini dopo aver sempre gravitato a sinistra

Non è la prima volta che accade. Qualche sospetto aleggiò anche su Stefano Menichini, giornalista che ha sempre gravitato a sinistra, prima a il manifesto e poi capo della comunicazione di Francesco Rutelli sindaco, e in seguito direttore di Europa, quotidiano della Margherita che poi chiuse i battenti. Era il 2016, presidente della Camera era Laura Boldrini, e Menichini sbaragliò la concorrenza di altri 269 candidati.

Manvuller capo ufficio stampa della Camera, più che una selezione pubblica sembra una chiamata diretta
Stefano Menichini (Imagoeconomica).

Con Fico il giornalista di Sky Marinozzi, sconosciuto ai cronisti parlamentari

La selezione pubblica a Montecitorio si fa dal 2013. La prima ad assicurarsi il posto è stata la giornalista de La Stampa Anna Masera, sempre con la presidenza Boldrini, che invece come portavoce volle con sé Roberto Natale, giornalista Rai ed ex segretario del sindacato Usigrai. Nel 2016 toccò a Menichini, mentre nel luglio 2020, con presidente Roberto Fico, la scelta cadde sul giornalista di Sky Moreno Marinozzi. I sussurri di Radio Transatlantico riportarono che a metterci una buona parola fosse stato l’allora portavoce di Fico, Carlo Passarello. Chissà. Sta di fatto che la scelta sorprese tutti, anche perché nessun cronista parlamentare aveva mai visto né sentito Marinozzi, così come totalmente sconosciuta a Montecitorio e agli ambienti della politica era Anna Masera.

Manvuller capo ufficio stampa della Camera, più che una selezione pubblica sembra una chiamata diretta
Moreno Marinozzi (foto Linkedin).

L’ultimo entrato con una scelta interna è stato Giuseppe Leone

Marinozzi ora è a capo della comunicazione ad Acea e a Montecitorio s’è resa necessaria una nuova selezione, vinta da Manvuller. Prima del 2013, invece, la selezione era tutta interna: l’ultimo che è entrato con questo sistema è stato Giuseppe Leone, nominato nel 2008 da Gianfranco Fini, e prima di lui c’era stato Vincenzo Porcacchia. Lo stesso metodo si segue ancora in Senato, dove il capo ufficio stampa viene nominato dall’ufficio di presidenza tra i dirigenti interni dell’amministrazione, senza dunque spese aggiuntive per le casse dello Stato. Adesso è Federico Toniato, l’enfant prodige dei palazzi romani, che nel 2014, a soli 39 anni, divenne vicesegretario generale di Palazzo Madama, carica che ricopre tutt’ora, insieme a quella di responsabile dell’ufficio stampa dal giugno 2016, nominato sotto la presidenza di Piero Grasso.

Manvuller capo ufficio stampa della Camera, più che una selezione pubblica sembra una chiamata diretta
Federico Toniato (Imagoeconomica).

La politica, poi, a volte conta anche per gli ingressi nella squadra. L’ex portavoce dell’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti, Fabio Rosati, è da molti anni in forze all’ufficio stampa di Montecitorio, mentre in quello di Palazzo Madama c’è Eli Benedetti, che fu portavoce dell’ex presidente Renato Schifani.

La nuova lobby dei chirurghi estetici che è riuscita a farsi cancellare l’Iva sugli interventi

Tutti a parlare di quanto siano forti le lobby dei balneari e dei tassisti, che eroicamente resistono a ogni tentativo di liberalizzazione, alle bestemmie degli utenti che li aspettano in fila per ore e al fatto che oramai per un posto in spiaggia occorra presentarsi muniti di fideiussione bancaria. Ma da oggi si scopre che c’è un’altra lobby potentissima di cui finora si era sottovalutata l’esistenza, quella dei chirurghi estetici, che è riuscita a infilare nel decreto Anticipi la cancellazione dell’Iva sugli interventi. Si badi bene che nel suddetto decreto dovrebbero finire quelli che si chiamano provvedimenti indifferibili, tipo il rinvio di imposte per le zone colpite da calamità naturali, rifinanziamento di leggi precedenti o istituzione di fondi ad hoc che consentano di far partire il sostegno a particolari iniziative (il campionario è vastissimo: edilizia scolastica, sport, sostegno alle imprese, eccetera).

Se mi trovo particolarmente brutto, non pago l’Iva sulla fattura del chirurgo

Ora, quale sia l’urgenza di togliere l’Iva sui ritocchi non è dato sapere. Probabilmente la domanda se la deve essere posta anche il legislatore il quale, prevedendo le critiche, si è affrettato a precisare che la decisione riguarda solo gli interventi a fini terapeutici. Però siccome la maggioranza di quelli che ricorrono alla chirurgia estetica lo fanno per sentirsi più belli, i paletti messi gli devono essere sembrati troppo stretti per rimpinguare il giro d’affari della categoria. Ecco che allora ha subito allargato i confini dell’esenzione a quegli interventi che servono a tutelare la salute psicofisica di chi vi ricorre. Tradotto: se io mi trovo particolarmente brutto e la ferale constatazione mi porta a cadere in depressione, non pago l’Iva sulla fattura del chirurgo che mi avrà restituito l’autostima. E chi stabilisce se faccio il furbo o sto veramente male quando mi guardo allo specchio? Un certificato del medico attesterà la fondatezza della mia richiesta. Ah beh, allora siamo sicuri che sotto i bisturi del chirurgo plastico sfileranno solo tipi alla Body Bizarre, la fortunata serie di Real Time che propone allo spettatore una galleria di corpi e facce deformate cui il medico e la sua equipe devono trovare rimedio.

La nuova lobby dei chirurghi estetici che è riuscita a farsi cancellare l’Iva sugli interventi
Il governo ha cancellato l’Iva sugli interventi di chirurgia estetica (Getty).

E ora a chi lo dirà alle italiche mamme che si sono viste raddoppiare l’imposta?

A questo punto sorge spontanea la domanda: d’accordo che il primo governo di destra della storia repubblicana è Open to meraviglia, e fa della bellezza dei monumenti e qualcuno aggiungerebbe della razza un motivo di orgoglio. Ma che dire delle italiche mamme, chiamate a figliare per scongiurare il rischio di indesiderate sostituzioni etniche, che si sono viste raddoppiare l’Iva su pannolini, seggiolini e latte in polvere? È più importante l’estetica o la procreazione? Sono questi, come diceva con pensoso tormento il manovale Marcello Mastroianni nel Dramma della gelosia di Ettore Scola, gli interrogativi cui dobbiamo rispondere.

La ridicola corsa al giustificazionismo sul treno di Lollobrigida

Perché invocare l’arroganza del potere? L’ignavo ministro Francesco Lollobrigida in realtà è solo il pioniere di una tendenza che di qui ai prossimi anni, col progredire della tecnologia dei trasporti, verrà messa al servizio di tutti: la fermata a richiesta. Come nei tram, ogni posto a sedere disporrà di un pulsante premendo il quale il treno si fermerà nella stazione più vicina. D’accordo, così facendo la durata dei viaggi rischia di dilatarsi a dismisura. Però se vuoi il servizio personalizzato non puoi avere tutto. E comunque un treno che si ferma a pochi passi dalla porta di casa ti evita lunghe file in estenuante attesa del taxi che non c’è mai.

I giornali di destra subito a difesa del cognato d’Italia Lollobrigida

Ma non è di questo che ovviamente volevamo parlare. Piuttosto del giustificazionismo che la parte politica del ministro e i giornali vicini hanno subito messo in campo a sua difesa. Immaginiamo la scena: riunione di redazione (ognuno scelga a suo piacimento la testata), arriva la notizia che Lollobrigida, spazientito dei ritardi accumulati del Frecciarossa che lo deve portare a Napoli per poi da lì raggiungere Caivano dove era atteso, fa fermare il treno e scende a Ciampino dove un’auto blu lo raccoglie per farlo arrivare in tempo a destinazione. Unanimi i commenti dal caporedattore in giù: ma gli ha dato di volta il cervello, come si fa a fermare un treno solo per consentirti di fare i tuoi comodi? Perplessità, ironia, un pizzico di indignazione ma finisce lì, perché ora il problema è trovare un modo per giustificare con i lettori il colpo di testa del cognato ministro.

La ridicola corsa al giustificazionismo sul treno di Lollobrigida
Il ministro Francesco Lollobrigida (Imagoeconomica).

Tesi 1: l’alto senso di responsabilità istituzionale

Qualcuno propone di buttarla sull’alto senso di responsabilità istituzionale. Pur di non mancare a un impegno con la collettività e deludere chi lo stava aspettando Lollobrigida sarebbe sceso anche dal treno in corsa. Teoria che potremmo chiamare dell’ubi maior, dove l’ubi in questo è la necessità di essere a tutti i costi a Caivano, la cui disagiata situazione Giorgia Meloni ha sempre avuto a cuore. Teoria debole ad arginare il fuoco di fila delle opposizioni che stanno invocando le dimissioni del ministro.

Tesi 2: così fan tutti, guardate quelli di sinistra! 

Decisamente meglio puntare sul così fan tutti. Ed ecco che parte una spasmodica ricerca per trovare qualche malcapitato di sinistra che abbia fatto la stessa cosa o peggio. Purtroppo però non si trova granché. Gli archivi riportano la voce di Maria Elena Boschi che avrebbe utilizzato una non prevista fermata ad Arezzo per salire sul Firenze-Milano. Non è vera, ma viene buono riesumarla perché Matteo Renzi è in prima linea nel coro dei fustigatori di Lollo. E poi quella di Graziano Delrio che quando era al governo aveva battezzato la una tratta Reggio Emilia (che è casa sua)-Roma. Ma a quel punto Google che non parteggia per nessuno fa emergere dal dimenticatoio anche la storia dell’aeroporto di Albenga, battezzato Riviera Airport, da cui l’allora ministro Claudio Scajola s’era ritrovato a sua insaputa un volo quotidiano per Roma che, lui che ha casa a Imperia, gli veniva come il cacio sui maccheroni.

Tesi 3: andiamo sul sicuro e buttiamola in caciara

Bocciato, arma a doppio taglio, sbotta a quel punto il vicedirettore del giornale giustificazionista. Meglio andare sul sicuro e buttarla in caciara. E allora via con l’aereo di Renzi che è costato un occhio dei contribuenti, con la Anna Finocchiaro che va a fare la spesa con la scorta che spinge il carrello, Claudio Burlando che per prendere una scorciatoia guidava contromano, auto blu e lampeggianti a gogo utilizzati magari per accompagnare la morosa dal parrucchiere. Eureka, questa sì che è una difesa convincente: la pagliuzza di Lollo che impedisce ai suoi fustigatori di vedere la trave che c’è nel loro sguardo. Approvato, si stampi.

Alemanno e Rizzo? No, la destra a destra di Meloni c’è già ed è quella di Salvini

Se l’obiettivo della strana coppia AlemannoRizzo, i rossobruni che hanno unito le forze, è la convinzione che ci sia uno spazio politico da occupare più a destra della destra, Giorgia Meloni può tirare dritto senza temere erosioni nel consenso di cui ancora ampiamente gode. Anche se il fu sindaco di Roma, con divertente suggestione, ha paragonato i suoi ex camerati alla vecchia Dc. In sostanza ha dato loro dei dorotei, che fu corrente scudocrociata di gran peso, ossia gente che in politica sapeva tenere tutto e il contrario di tutto. Cosa che, a prescindere dal contesto storico in cui nacque, ha fatto assurgere il doroteismo a generale categoria dello spirito.

Per i duri e puri col culto di Predappio non c’è spazio da occupare

In questo senso la premier sta interpretando bene la parte: in Europa flirta con i tedeschi, il cui spirito rigorista sui conti prima di varcare la soglia di Palazzo Chigi è sempre stato un suo bersaglio privilegiato. In casa lascia ad alcuni dei suoi, che spesso la interpretano goffamente, la parte degli anti sistema. Dunque non c’è nessuna possibilità che la destra nostalgica del passato che fu possa mettere radici come partito politico antagonista al di fuori delle chat tra militanti, sfogatoio dei duri e puri che tendono ad alzare il braccio e coltivano il culto di Predappio? No, per la semplice ragione che quel partito c’è già, ed è la Lega di Matteo Salvini. La sua, non quella che governa stabilmente sui territori e che nel suo pragmatismo è lontana mille miglia dal frenetico camaleontismo dell’ineffabile segretario.

Alemanno e Rizzo? No, la destra a destra di Meloni c'è già ed è quella di Salvini
Matteo Salvini (Imagoeconomica).

Salvini sta facendo come Fratelli d’Italia ai tempi dell’opposizione

Per dirla in breve, si potrebbe dire che Salvini, pur essendo vicepremier e ministro, tende a emulare il ruolo che fu di Meloni quando la leader di Fratelli d’Italia stava all’opposizione. In politica estera il suo modello valoriale è quello delineato dal discorso spagnolo di Giorgia al raduno di Vox dell’ottobre 2021. Ma mentre lei adesso guarda ai Popolari, come perno di un possibile ribaltamento degli attuali assetti a Bruxelles, i referenti europei del Capitano sono Afd e Marine Le Pen. E in casa sua il leader del Carroccio è diventato il miglior interprete del motto Dio, patria e famiglia tanto caro alla destra estrema. E così facendo ha trasformato la Lega da federalista a movimento reazionario e sanfedista.

Obiettivo Europee 2024, ma i sondaggi per ora non danno ragione

La posta in gioco è chiara, la possibilità di vincerla un vero azzardo. Salvini vuole scavalcare a destra Meloni per arrivare alle Europee 2024 come solido approdo di chi si sente tradito dalla sua metamorfosi governista. I sondaggi, per ora, non gli stanno dando ragione. Difficile stare la governo e indossare al tempo stesso la felpa del capopopolo. Ma di qui a giugno c’è ancora tempo per tentare l’impresa.