Il governo fa cassa su Mps ma dice addio ai piani ambiziosi

Dopo grandi tira e molla, fatti di vani tentativi di trovare qualche banca che se lo comprasse, lo Stato vende poco meno della metà della sua quota nel Monte dei Paschi. Lo ha deciso per il disperato bisogno di fare cassa, anche se i proventi dalla cessione di asset pubblici dovrebbero andare a riduzione del debito e non a ingrossare la spesa corrente. Ma anche per battere un colpo dopo aver annunciato un ambizioso piano di privatizzazioni che sulla carta dovrebbe fruttargli una ventina di miliardi. Ovviamente saranno molti di meno.

Lo Stato non porterà a casa i 9 miliardi investiti

Alla fine però la sua uscita dalla banca senese sarà comunque in perdita, nel senso che mai il Mef, titolare delle azioni, porterà a casa i 9 miliardi e passa che vi aveva investito per tenerla in piedi. Ma chi si accontenta gode, anche se ci sarebbe da fare un ragionamento sul come mai all’estero, soprattutto in America, i salvataggi dei grandi istituti di credito da parte dei governi si sono spesso trasformati in un lucroso affare.

Il governo fa cassa su Mps ma dice addio ai piani ambiziosi
Rocca Salimbeni, sede di Monte dei Paschi di Siena (Imagoeconomica).

Ita giace spersa nella terra di nessuno

Il Mef ha rotto gli indugi quando ha capito, nonostante le numerose proroghe generosamente concesse da Bruxelles, che un’altra banca italiana che si prendesse sulle spalle Mps non la avrebbe mai trovata. E l’idea del terzo polo da affiancare a Intesa e Unicredit sarebbe rimasta al palo. La banca guidata da Andrea Orcel, per lungo tempo l’indiziato numero uno all’acquisto, aveva giustamente preteso una dote importate, specie dopo quella che era stata data a Intesa quando rilevò le popolari venete sull’orlo della bancarotta. Significava un esborso di altri 4/5 miliardi da aggiungere ai capitali già profusi. Troppo anche per chi non vedeva l’ora di togliersi la grana senese e dedicarsi alle altre, ossia la privatizzazione di Ita, che al momento giace spersa nella terra di nessuno (in realtà un protettorato francese) dell’Antitrust europeo.

Su Tim il Mef dovrà scucire altri 2 miliardi

E infine Tim, perché la pubblicizzazione della rete dell’ex monopolista dei telefoni era un caposaldo del programma del centrodestra una volta entrato a Palazzo Chigi. Solo che per fare l’operazione, su cui dopo la decisione di vendere a Kkr pesa l’incognita dei soci francesi, il Mef dovrà scucire altri 2 miliardi. Insomma, soldi che entrano e soldi che escono, con il saldo ahinoi pesantemente negativo (si pensi solo alla quantità di denaro pubblico pompato nelle casse della spompatissima Alitalia/Ita).

Nelle mani dei fondi stranieri di private equity

Sono tutte operazioni che celano grandi ambizioni, ma che si devono scontrare con l’endemica penuria di risorse che un debito pubblico destinato a sfondare la soglia dei 3 mila miliardi brucia con voracità. Tradotto: il governo vorrebbe essere parte attiva nella creazione di campioni industriali nazionali, ma per farlo deve mettersi nelle mani dei fondi stranieri di private equity che i soldi sì ce li mettono, ma se li fanno pagare cari. La vicenda Autostrade, ma anche quella di Open Fiber che ha appena chiesto alle banche altri 2 miliardi, e quella di Tim sono lì a mostrare che i fondi sono tutt’altro che enti benefici felici di compiacere Giorgia Meloni, Giancarlo Giorgetti e compagnia cantante. Infatti sul capitale investito impongono rendimenti che sfiorano le due cifre. Quindi i governi, e non solo questo così fieramente sovranista, sono costretti a fare buon viso a cattivo gioco. Del resto nella sua lungimiranza il vecchio Enrico Cuccia lo aveva profetizzato che meglio non si poteva: per il fondatore di Mediobanca l’Italia era un Paese pieno di capitalisti e di aziende senza capitali. Che è esattamente la situazione con cui Palazzo Chigi deve fare in conti adesso.

La Bce lascia fermi i tassi al 4,5 per cento dopo dieci rialzi consecutivi

La Bce ha deciso di lasciare i tassi d’interesse invariati. Si tratta della prima pausa dopo la serie di dieci aumenti consecutivi. Il tasso sui rifinanziamenti principali resta fermo al 4,50 per cento, quello sui depositi al 4 per cento, e quello sui prestiti marginali al 4,75 per cento. Lo comunica l’Istituto centrale al termine della riunione che si è tenuta ad Atene.

L’ultimo rialzo a settembre

L’ultimo rialzo, con cui la Banca centrale europea ha portato i tassi d’interesse a 4,5 per cento (alzandoli di un quarto di punto), risale allo scorso settembre. In quel caso il Consiglio direttivo ha sottolineato la necessità di «mantenere per un periodo sufficientemente lungo» i tassi per «un ritorno tempestivo dell’inflazione all’obiettivo».

La Bce lascia fermi i tassi al 4,5 per cento dopo dieci rialzi consecutivi
Il palazzo della Bce (Getty Images).

La Bce ancora preoccupata per l’inflazione

Nel comunicato di oggi questa preoccupazione per l’inflazione è stata confermata. Si legge: «Ci si attende tuttora che l’inflazione resti troppo elevata per un periodo di tempo troppo prolungato. Inoltre perdurano le forti pressioni interne sui prezzi». La pausa è arrivata grazi al fatto che «l’inflazione ha registrato un netto calo a settembre, ascrivibile anche ai forti effetti base, e gran parte delle misure dell’inflazione di fondo ha continuato a diminuire. I passati aumenti dei tassi di interesse decisi dal Consiglio direttivo seguitano a trasmettersi con vigore alle condizioni di finanziamento, frenando in misura crescente la domanda e contribuendo pertanto alla riduzione dell’inflazione».

L’obiettivo della Bce è il ritorno al «2 per cento»

Il Consiglio direttivo, si legge ancora, «è determinato ad assicurare il ritorno tempestivo dell’inflazione all’obiettivo del 2 per cento a medio termine. In base alla sua attuale valutazione, il Consiglio direttivo ritiene che i tassi di interesse di riferimento della Bce si collochino su livelli che, mantenuti per un periodo sufficientemente lungo, forniranno un contributo sostanziale al conseguimento di tale obiettivo. Le decisioni future del Consiglio direttivo assicureranno che i tassi di riferimento siano fissati su livelli sufficientemente restrittivi finché necessario». Per questo la Bce resta «pronta ad adeguare tutti i suoi strumenti nell’ambito del proprio mandato per assicurare che l’inflazione ritorni all’obiettivo del 2 per cento».

Mediobanca, spunta l’1 per cento di Gallazzi e Vacchi: da che parte staranno?

Vigilia con sorprese dell’assemblea di Mediobanca del 28 ottobre, che dovrà rinnovare il consiglio di amministrazione. La cui lista, che riconferma Renato Pagliaro e Alberto Nagel alla guida dell’istituto, si confronterà con quella presentata da Delfin, la finanziaria della famiglia Del Vecchio che detiene il 20 per cento del capitale. E mentre ci si interroga cosa faranno i Benetton del loro pacchetto di voti, ecco spuntarne un altro dell’1 per cento che – a darne notizia è Il Sole 24 Ore – fa capo ai due imprenditori Giulio Gallazzi (è in molti cda pesanti, da Mediaset a Tim a DanieliBanca del Fucino) e Bernardo Vacchi, titolari rispettivamente di Sri Group, holding che investe soprattutto in piccole e medie aziende italiane, e di FinVacchi, uno dei principali family office italiani, che tra gli altri controlla Boato International (società leader mondiale nella produzione di macchine per la produzione di membrane bituminose). Mistero però su dove i due indirizzeranno le loro preferenze. L’1 per cento sembra poca cosa, ma in una guerra dove le parti si fronteggiano all’ultimo voto, e insieme al novero dei piccoli pacchetti fuori dai due grandi schieramenti, può risultare decisivo nel far pendere l’ago della bilancia verso uno o l’altro dei contendenti. C’è dunque molta attesa per vedere come andrà a finire: se vince la lista del consiglio, tutto resta come prima per altri tre anni e gli sfidanti avranno diritto a due posti in cda. Se vince quella di Delfin saranno cinque i suoi rappresentati a entrare nel board.

Aponte in Italo e la partita Mediobanca, sussulti di capitalismo privato

Sussulti di capitalismo privato animano importanti partite industriali e finanziarie. L’armatore Gianluigi Aponte dopo una non lunghissima trattativa ha finalizzato il suo ingresso in Italo, la fortunata (in primis per chi ci ha investito dall’inizio) compagnia ferroviaria che dal 2012 fa concorrenza sull’alta velocità alle Ferrovie dello Stato. L’armatore, napoletano di origine ma svizzero di portafoglio, da tempo ambiva a fare un polo integrato dei trasporti che comprendesse navi, treni e aerei. Per questo si era offerto di rilevare Ita Airways insieme a Lufthansa, ma come si sa è andata a finire diversamente. Capito che dentro al governo agiva un partito che non aveva alcuna intenzione di mollare la greppia dell’ex Alitalia, ha giratoi tacchi e se n’è andato. Ora torna sulla scena, ma invece degli aerei ha comprato i treni.

Aponte in Italo e la partita Mediobanca, sussulti di capitalismo privato
Gianluigi Aponte (Imagoeconomica).

Nel governo Meloni c’è qualcuno che ha interesse a traccheggiare

Si era sussurrato di un suo possibile rientro nella trattativa per la compagnia di bandiera sempre accanto ai tedeschi, ma alla fine si è ben guardato di dar seguito. Aponte ha capito che, nonostante le rimostranze di Giorgia Meloni sull’Europa matrigna che frena la vendita, anche dentro questo governo c’è qualcuno che ha interesse a traccheggiare. Magari adesso con la scusa che tra Italia e Germania i rapporti sono ai minimi termini. Sta di fatto che Ita è ancora lì, sotto l’ala protettiva dello Stato e le scorribande della politica determinata a scongiurarne la privatizzazione. Che, se non arriva, richiederà presto un altro pompaggio di denaro pubblico, che va ad aggiungersi agli oltre 15 miliardi che i contribuenti hanno pagato nel corso degli anni per volare italiano.

Mediobanca, con chi si schiererà la cassaforte dei Benetton?

Voltando pagina, l’altra partita che arriva a compimento è la presentazione della lista di minoranza che si confronterà con quella del consiglio di amministrazione per il rinnovo dei vertici di Mediobanca. È una lista di cinque nomi che sta molto sulle Generali, nel senso di assicurazioni. Combattenti e reduci eredi (ma forse sarebbe meglio dire Erede) della battaglia per sovvertire gli assetti del più importante gruppo finanziario del Paese. C’è Massimo Lapucci, ex segretario della Fondazione Crt schieratasi all’epoca con Caltagirone e Del Vecchio.. E poi Sandro Panizza, ex top manager di Generali, e Sabrina Pucci, già consigliera del Leone ed ex consorte dell’attuale amministratore delegato di Edizione Enrico Laghi. Il riferimento parentale viene buono non per metere il dito tra moglie e marito ma solo per la curiosità di sapere con chi si schiererà la cassaforte dei Benetton, che ha in pancia un 2 per cento di Mediobanca, non noccioline, specie se i contendenti dovessero giocarsela sul filo.

Aponte in Italo e la partita Mediobanca, sussulti di capitalismo privato
Alessandro Benetton (Imagoeconomica).

Il ddl capitali dove Fazzolari spinge e Giorgetti frena

Alessandro, il leader della famiglia, all’indomani della guerra su Trieste, dove dopo qualche titubanza si era schierato con la coppia Del Vecchio-Caltagirone, aveva dato all’ad di Piazzetta Cuccia Alberto Nagel garanzie sulla tenuta dell’attuale governance. Laghi, invece, aveva rimandato la resa dei conti alla imminente assemblea di fine ottobre, considerando Mediobanca e non Generali (di cui peraltro è azionista di riferimento) la madre di tutte le battaglie. Non la pensa così Caltagirone, che pone tutte le sue speranze di rivincita sul colosso triestino sul prossimo rinnovo dei vertici, nel 2025. Giusto in tempo, quindi, per approvare un ddl capitali molto penalizzante nei confronti delle liste del cda e molto favorevole nei confronti delle minoranze. Forse troppo, esagerando. Se n’è accorto il Mef, e infatti il ministro Giancarlo Giorgetti vuole modificarlo. Non solo per questo, in verità. Il ddl capitali nella sua attuale versione gode del convinto avvallo di Palazzo Chigi via l’autorevole imprimatur di Giovambattista Fazzolari, sottosegretario e braccio destro (e anche un po’ sinistro) della premier. Ma con l’aria che tira nei rapporti tra Fratelli d’Italia e la Lega non è affatto detto che la cosa passi liscia.

Lo spread, l’indebitamento italiano e la tempesta perfetta sull’Eurozona

Quando al timone dell’Italia c’è un governo di centrodestra e lo spread si scalda, subito il riflesso pavloviano è automatico: 2011, tempesta finanziaria, crollo dell’esecutivo, fine politica di Silvio Berlusconi. Ora che siamo nel 2023, la situazione non sembra la stessa ma gli scossoni sotto Giorgia Meloni cominciano a farsi sentire. Cosa sta succedendo realmente? Il mercato obbligazionario dell’Eurozona è agitato per via di rendimenti su livelli che non si vedevano da 10 anni: i titoli di Stato sprofondano, mentre lo spread si allarga. Nella giornata di giovedì 28 settembre, quando il rendimento dei Btp ha sfiorato il 5 per cento, l’ormai famigerato differenziale tra Btp e Bund tedeschi è schizzato in modo allarmante oltre la soglia psicologica dei 200 punti, per poi chiudere a 193. L’approvazione da parte del governo Meloni della Nadef, la Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza, non ha riacceso la fiducia dei mercati verso il nostro Paese. Tutt’altro: anche secondo il Financial Times la crescita del mercato dei bond europei è causato principalmente dai progetti di maggior indebitamento illustrati dal nostro ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti alla Camera.

Come l’indebitamento italiano influisce sullo spread tra Btp-Bund e sul mercato obbligazionario dell'eurozona.
Giancarlo Giorgetti (Ansa).

Il deficit in rialzo dell’Italia e il debito pubblico stabile preoccupano l’Europa

Giorgetti ha annunciato che per il 2024 è stato fissato un rapporto deficit/Pil al 4,3 per cento, ben superiore dunque al limite del 3 per cento previsto dai Trattati dell’Unione europea. La decisione permetterebbe di mantenere gli interventi essenziali a favore dei redditi medio-bassi, insieme a consistenti stanziamenti per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego. Il deficit in rialzo fa paura all’Europa, insieme al debito pubblico previsto stabile al 140 per cento, perché attorno ci sono altri elementi di incertezza. Per esempio le previsioni sulla crescita economica, giudicate (troppo) ottimistiche. E un possibile incremento delle emissioni, su un mercato che potrebbe non essere in grado di assorbire l’offerta. E così il 28 settembre i prezzi dei titoli di Stato europei sono crollati bruscamente, su un mercato obbligazionario già turbato dalla decisione della Banca centrale europea di aumentare ancora i tassi di interesse per abbassare l’inflazione.

Come l’indebitamento italiano influisce sullo spread tra Btp-Bund e sul mercato obbligazionario dell'eurozona.
Piazza Affari, Milano (Ansa).

Dalla Francia alla Spagna, la spia rossa dello spread si è accesa dappertutto

La spia rossa dello spread si è accesa in tutta Europa. In Italia, come detto, il rendimento a 10 anni è salito di 0,12 punti percentuali fino al 4,89 per cento, il livello più alto dal 2013, per uno spread schizzato sopra i 200 punti. Ma dal 2,83 al 2,93 per cento sono saliti anche i rendimenti degli stessi Bund tedeschi, benchmark su cui vengono calcolati gli spread dei titoli degli altri Paesi dell’eurozona. In Francia, dove il governo è stato criticato dall’autorità di vigilanza fiscale per non aver tagliato la spesa pubblica abbastanza da evitare di violare le regole fiscali dell’Ue nel 2024, il rendimento a 10 anni è balzato a oltre il 3,5 per cento, livello più alto dal 2011. Ai massimi da un decennio anche i titoli di Stato in Spagna, saliti oltre il 4 per cento. Piet Haines Christiansen, direttore della ricerca sul reddito fisso alla Danske Bank, ha detto al Financial Times che il mercato obbligazionario si trova nel pieno di una «tempesta perfetta», in cui il sell-off delle obbligazioni è stato guidato dalle revisioni dei deficit di Italia e Francia, dagli alti tassi di interesse e dall’aumento del prezzo del petrolio. Tra l’altro non si parla solo di Eurozona, visto che i rendimenti decennali sono aumentati leggermente anche nel Regno Unito, così come negli Stati Uniti.

Come l’indebitamento italiano influisce sullo spread tra Btp-Bund e sul mercato obbligazionario dell'eurozona.
Un operatore di Borsa segue l’andamento dello spread (Ansa).

Il differenziale è schizzato molto in alto, ma non deve far preoccupare (per ora)

Il differenziale tra i Btp italiani decennali e i Bund tedeschi è l’indicatore che si muove quando cambia la percezione dei mercati rispetto al rischio Paese. Gli investitori internazionali guardano sempre con una certa cautela verso l’Italia, che si porta dietro il peso di un debito storicamente troppo alto rispetto al Pil. In questo caso, sottolineano da più parti gli analisti, il balzo in alto dello spread non deve far preoccupare eccessivamente: il governo gode infatti di una maggioranza solida e i fondamentali dell’economia sono migliori rispetto al 2011, quando si verificò la pesante crisi del debito sovrano italiano. Secondo l’economista e professoressa della London Business School Lucrezia Reichlin, interpellata da La Stampa, il pericolo maggiore arriverà nel 2024: «Credo che la reazione dei mercati sia temporanea, ma questo dipenderà anche dalla reazione della Commissione e dei partner europei. Gli investitori non apprezzano le tensioni tra l’Italia e l’Europa. Il ministro Giorgetti ha detto di non voler fare nulla di pro-ciclico, ma l’anno prossimo l’economia andrà peggio».

Cosa frulla nella mente di Francesco Milleri sulla partita Mediobanca

In un’italica finanza di calma relativamente piatta, l’unica increspatura arriva dalla partita Mediobanca. Non è uno scontro epocale, ma è comunque una vicenda che tocca gli equilibri del sistema. Nella banca che fu di Enrico Cuccia governa da tempi immemori una diarchia la cui amalgama ha sin qui retto a tutte le forze d’urto che hanno tentato di disgregarla. Riducendo a miti consigli anche chi, come Cesare Geronzi, sulla carta era un avversario nettamente più forte.

Tutti pensavano che Milleri si sarebbe accontentato dei dividendi…

Ora, non ci sarebbe nulla di strano che Renato Pagliaro e Alberto Nagel, dopo anni di felice (con)dominio, avessero voglia di fare altro nella vita. Ma siccome non pare sia così, oltre al ricambio generazionale non c’è motivo di eccepire sul fatto che vogliano restare, forti anche di risultati che fanno contenti tutti i soci, compreso chi li vorrebbe cacciare. E qui veniamo al punto. Tutti pensavano che, morto Leonardo Del Vecchio, il suo successore alla guida dell’impero, Francesco Milleri, si sarebbe accontentato di incassare i pingui dividendi che ogni anno gli arrivano da Milano. E questo per diverse ragioni. La prima è che il suo investimento nella storica banca d’affari è sotto tutela della Bce: non può aumentare senza chiederle il permesso, non può ambire a comandare avendo la sua partecipazione carattere esclusivamente finanziario.

Cosa frulla nella mente di Francesco Milleri sulla partita Mediobanca
Alberto Nagel e Renato Pagliaro (Imagoeconomica).

Nel mirino c’è Pagliaro, reo di essersi messo di traverso a Del Vecchio

Piccolo antefatto per capire gli sviluppi. Del Vecchio aveva cominciato a scalare Mediobanca per uno sghiribizzo di pancia. Voleva diventare il padrone dello Ieo, l’istituto europeo di oncologia nato e cresciuto sotto l’egida di Mediobanca, ma proprio Pagliaro gli ha sbarrato la strada. Da allora il patron di Luxottica, invece che abbozzare e godersi soldi e successo, s’è messo in testa di scalare Piazzetta Cuccia. Puntando proprio Pagliaro, reo di esserglisi messo di traverso. Fedele alle consegne e ai rancori del fondatore, in questo suo tentativo di rovesciare la governance dell’istituto, Milleri ha messo nel mirino proprio Pagliaro, non l’ad Nagel. Ma, come è noto, la ricerca di un’alternativa che mettesse d’accordo i contendenti non è andata a buon fine. Ci voleva un personaggio super partes, che piacesse a tutti. Ma se ne sono trovati solo di partes.

I figli di Leonardo però sconfessano la linea sul dossier

Alla vigilia del deposito della lista per il nuovo consiglio di amministrazione, resta ora solo da vedere se quella che competerà con quella collaudata del cda sarà lunga o corta. Sempre, è bene ricordarlo, di minoranza, anche se avere cinque consiglieri al posto di due qualche fastidio ai guidatori lo può dare. Intanto però sul fronte degli attaccanti si è levato un fuoco amico. Tre dei sei figli di Leonardo si sono rivolti a Delfin, la finanziaria della famiglia che ha in portafoglio le azioni Mediobanca, per sapere se le mosse di Milleri siano state autorizzate dal cda o siano il frutto di una sua personale iniziativa. Una sconfessione, insomma, del suo operato sul dossier.

Cosa frulla nella mente di Francesco Milleri sulla partita Mediobanca
Francesco Milleri con Leonardo Del Vecchio, morto il 27 giugno 2022 (Imagoeconomica).

Un malessere sulla questione ereditaria che non guarisce

Avrebbero sicuramente preferito una soluzione diversa, per esempio la distribuzione pro quota agli eredi delle azioni in modo che ognuno ne avrebbe disposto a piacimento. Questa guerra, ai loro occhi, non s’aveva da fare. L’iniziativa è la spia di un malessere sulla questione ereditaria nato all’indomani della morte di Leonardo, in particolare sui 360 milioni che il fondatore ha lasciato al suo braccio destro Milleri. Il quale, invece che cercare di calmare le acque, le ha agitate ancora di più chiedendo alla famiglia di essere sgravato anche dai 50 milioni di tasse che deve al Fisco. Risultato? Spaccatura con il manager ma anche interna al clan Del Vecchio, dove i figli sono equamente divisi tre contro tre, con il primogenito Claudio che tenta di ricucire e il più giovane, Leonardo Maria, che lavora in Luxottica, schierato decisamente con il suo ad.

Cosa frulla nella mente di Francesco Milleri sulla partita Mediobanca
Leonardo Maria Del Vecchio con la ex moglie Anna Castellini Baldissera (Imagoeconomica).

Leonardino aveva provato a imparentarsi con Mediobanca con un matrimonio

Leonardino, per curiosità, si era simbolicamente imparentato con Mediobanca sposando la nipote di Vincenzo Maranghi, per oltre 40 anni il più fedele collaboratore di Cuccia. Ma il matrimonio è durato molto meno di un segretario del Pd, e lui forte di prestanza ed esuberanza è tornato a popolare le pagine dei settimanali di gossip con le sue nuove conquiste. Aveva in verità anche rilasciato una seriosa intervista al Corriere della sera, in cui oltre a supportare incondizionatamente Milleri si era spinto a dire che tutti in famiglia condividevano l’assunto. Come si vede, non era proprio così.

Lo spread schizza a 200 e mette sotto pressione il governo Meloni

Tira una brutta aria sul governo Meloni, ed è vento di tempesta finanziaria. I mercati sono tornati a mettere sotto pressione l’Italia dopo il varo della Nadef, la Nota di aggiornamento di economia e finanza in cui è stato stimato un innalzamento del rapporto deficit/Pil, che passa dal 4,5 per cento del Def al 5,3 per cento. In più ci si è messo anche il debito pubblico, che come ha comunicato la Banca d’Italia è aumentato a luglio 2023 di 10,4 miliardi rispetto a giugno, risultando pari a 2.858,6 miliardi di euro. Risultato? Il ritorno dei vecchi fantasmi dello spread, che fecero crollare l’ultimo governo Berlusconi a fine 2011. Il differenziale tra Btp e Bund tedeschi è salito toccando i 200 punti base. Un livello che non si vedeva da febbraio. Il rendimento del decennale italiano è al 4,94 per cento. La cartina di tornasole del “rischio” Paese ci sta comunicando qualcosa. E per Giorgia Meloni non sono buone notizie.

Bce, Lagarde: «Per chi ha mutui a tasso variabile è dura»

La presidente della Bce Christine Lagarde, nel rispondere agli eurodeputati della commissione Econ a Bruxelles, ha dichiarato: «Il 30 per cento delle famiglie negli Stati membri hanno mutui a tasso variabile. È dura, lo sappiamo». L’argomento è stato il rialzo dei tassi d’interesse e Lagarde ha lanciato un messaggio, sottolineando che «abbiamo bene in mente quanto dolore infliggono».

Bce, Lagarde «Per chi ha mutui a tasso variabile è dura»
La presidente della Bce Christine Lagarde (Getty Images).

Lagarde: «Nostro dovere riportare l’inflazione all’obiettivo»

La presidente ha poi aggiunto: «Sappiamo anche che il prezzo della benzina alla pompa e i prezzi dell’energia in generale pesano fortemente sulle famiglie a basso reddito. Lo sappiamo, ma sappiamo anche che la nostra missione, il nostro dovere è riportare l’inflazione all’obiettivo in maniera tempestiva. Più rapidamente ci tornerà e più stabili torneranno i prezzi, meno dura sarà andare avanti, sia per coloro che hanno investito sia per coloro che si sono indebitati». E guardando al prossimo futuro ha continuato «stiamo conducendo una revisione completa del quadro operativo per la gestione dei tassi di interesse a breve termine, valutando i costi e i benefici dei regimi alternativi. Il nostro obiettivo è concludere questa revisione entro la primavera del 2024 e, ovviamente, riferiremo a questa commissione sui risultati».

Bce, Lagarde «Per chi ha mutui a tasso variabile è dura»
Christine Lagarde (Getty Images).

Previsto il calo dell’inflazione al 2,1 per cento nel 2025

Lagarde ha parlato poi delle previsioni della Bce sull’inflazione. Dovrebbe «calare dal 5,6 per cento nel 2023 al 3,2 nel 2024 e al 2,1 nel 2025. Sulla base della nostra ultima valutazione, riteniamo che i nostri tassi ufficiali abbiano raggiunto livelli che, mantenuti per un periodo sufficientemente lungo, forniranno un contributo sostanziale al tempestivo ritorno dell’inflazione al nostro obiettivo». E ha concluso: «In ogni caso le nostre decisioni future garantiranno che i tassi di interesse di riferimento della Bce saranno fissati a livelli sufficientemente restrittivi per tutto il tempo necessario. Continueremo a seguire un approccio dipendente dai dati, basando le nostre decisioni sulla nostra valutazione delle prospettive di inflazione alla luce dei dati economici e finanziari in arrivo, delle dinamiche dell’inflazione di fondo e della forza della trasmissione della politica monetaria».

La Bce alza i tassi di un quarto di punto percentuale al 4,50 per cento

La Banca Centrale Europea ha deciso di alzare i tassi d’interesse di un quarto di punto percentuale, portando il tasso sui rifinanziamenti principali al 4,50 per cento, quello sui depositi al 4 per cento e quello sui prestiti marginali al 4,75 per cento. In un comunicato, la Bce ha sottolineato che se i tassi «resteranno così a lungo», l’inflazione «sarà domata». Si tratta del decimo rialzo consecutivo. L’ultimo è stato il 27 luglio scorso, quando il tasso è stato portato dal 4 al 4,25 per cento, con un aumento di 25 punti base anche in quel caso.

La Bce: «Approccio guidato dai dati»

La Banca Centrale Europea ha spiegato che il Consiglio direttivo «ritiene che i tassi di interesse di riferimento della Bce abbiano raggiunto livelli che, mantenuti per un periodo sufficientemente lungo, forniranno un contributo sostanziale a un ritorno tempestivo dell’inflazione all’obiettivo. Le decisioni future del Consiglio direttivo assicureranno che i tassi di interesse di riferimento della BCE siano fissati su livelli sufficientemente restrittivi finché necessario». Il Consiglio «continuerà a seguire un approccio guidato dai dati nel determinare livello e durata adeguati della restrizione».

Mediobanca, i desiderata di Milleri e la partita su Pagliaro

Ci fosse ancora Enrico Cuccia, o il suo fedele scudiero Vincenzo Maranghi, a calpestare i corridoi del piano nobile di via Filodrammatici ora Piazzetta titolata al fondatore, la partita si sarebbe risolta in un attimo. O forse non si sarebbe nemmeno giocata perché, si sa, dentro le mura di quel palazzo valeva la regola per cui i numeri si pesano, non si contano. E soprattutto, almeno nel caso della autorevole maison, sono i controllati a comandare sui controllori. È vero, quella Mediobanca da tempo non c’è quasi più, eppure lo spirito che per decenni l’ha pervasa è duro a morire: indipendenza dei manager corroborata da ottimi risultati, autonomia dalla politica. Nonché appunto dagli azionisti, fossero le tre banche pubbliche di una volta (Roma, Comit e Unicredit) o i nuovi barbari alle porte – citazione in omaggio alla visita di Henry Kravis, una delle mitiche due K di Kkr, a Milano – che al momento vestono i panni più rassicuranti di Francesco Milleri, erede designato da Leonardo Del Vecchio al comando di Luxottica.

Mediobanca, i desiderata di Milleri e la partita su Pagliaro
Piazzetta Cuccia (Imagoeconomica).

L’idea osé di Milleri: indicare il nuovo presidente

Ora succede che, in vista della scadenza ottobrina del cda della più blasonata banca d’affari italiana, il nuovo re Mida di Agordo si sia messo in testa non di comandare, che sarebbe pretesa velleitaria con la Bce che fucile puntato ne controlla le mosse, ma di contare di più. Ha il 20 per cento, e vorrebbe non solo che il nuovo consiglio ne tenesse conto, richiesta più che legittima, ma che come segno tangibile gli riconoscesse il diritto di indicare il presidente. Un’idea talmente osé per l’aurea tradizione dell’istituto che solo a evocarla i numi dell’Olimpo mediobanchesco scagliano fulmini e saette. Anche perché colui che da quasi 20 anni è seduto su quella poltrona passa come il custode del suo spirito primigenio, il depositario delle tavole della legge ricevute in punto di morte da Maranghi, che a sua volta le aveva avute da Cuccia e se possibile le aveva interpretate ancora più rigidamente di quanto avesse fatto il fondatore. Il colui si chiama Renato Pagliaro: ha messo piede per la prima volta in Mediobanca nel 1981 (Piero Angela esordiva con Quark, Alfredino rimaneva vittima del pozzo e Indiana Jones debuttava al cinema) e da allora non è più uscito. E non dovrebbe uscirci nemmeno col prossimo rinnovo del cda, perché al momento non c’è un candidato alternativo che lo possa insidiare.

Mediobanca, i desiderata di Milleri e la partita su Pagliaro
Renato Pagliaro e Alberto Nagel (Imagoeconomica).

Da Grilli a Pignatti, da Valeri a Grieco, i candidati scartati

Pagliaro, per chiarire, oltre che il garante di un’ortodossia se pur mitigata dall’usura del tempo, non è un presidente di rappresentanza. È uno che conosce a menadito la delicata macchina della governance dell’istituto, che cavalca le onde perigliose di statuti, comitati, clausole, patti e contro patti almeno quanto gli piace fare su strada con la sua Harley-Davidson. Si capisce bene perché Alberto Nagel, l’amministratore delegato altro prodotto del vivaio interno, non vi voglia rinunciare a cuore leggero. Anche se, fedele a uno dei comandamenti della casa, l’interesse dell’istituzione mai può essere sacrificato a quello del singolo. E infatti, da quando è cominciato il balletto sui futuri equilibri, Pagliaro invita Nagel ad avere in tasca un piano B che preveda la loro separazione. Ma il secondo non ci sente, aiutato anche dal fatto che i nomi proposti da Milleri sono stati respinti al mittente come “unfit”. Certo che se butti nella mischia uno dei tuoi storici consulenti, l’ex ministro Vittorio Grilli, ora banchiere di vaglia con JPMorgan e idolo di tutti i mariti italiani per una sentenza sul suo divorzio che ha fatto cassazione, il no è automatico. Altri papabili sono durati meno dello spazio di un mattino: Vittorio Pignatti, già in consiglio ed ex protagonista della Lehman Brothers italiana nei suoi anni ruggenti; Flavio Valeri, che fu capo di Deutsche Bank in Italia e dava del tu a Merkel; infine Patrizia Grieco, che sarebbe stata la prima volta di una donna alla presidenza in una banca dove, nonostante la divisione di genere ottemperi alle buone pratiche, il comando è maschio al punto che ci si ricorda della moglie del fondatore, al cui fianco mai compariva, solo per la bizzarria del nome: Idea Nuova Socialista. Per mettere d’accordo tutti ci vorrebbe, spiegano gli esegeti, una figura a cui non si può dire di no, tipo Mario Draghi se l’ex premier non avesse deciso di giocarsi un’altra partita altrove. Ma tirarlo fuori è come trovare un ago nel pagliaio. Anzi, nel Pagliaro, che quindi a due settimane dal deposito delle liste resta di gran lunga il favorito.

Mediobanca, i desiderata di Milleri e la partita su Pagliaro
Vittorio Grilli (Imagoeconomica).

Le richieste di Milleri sembrano pensate per scatenare la bagarre

Però la tigna di Milleri, che forse inizialmente è stato sottovalutato, ha sorpreso un po’ tutti. Si pensava che, morto Del Vecchio, il manager umbro tenesse la pratica in letargo e si limitasse a godere dei pingui dividendi che gli arrivano da Milano. In fondo l’aveva ereditata per un’impuntatura del re degli occhiali, che voleva mettere le mani sullo Ieo, l’Istituto oncologico (altra creatura di Cuccia gelosamente affidata alle cure di Pagliaro), ed è stato respinto senza complimenti. Si pensava che avesse beghe in casa sua tali da dissuaderlo a fare battaglie fuori, visto che almeno quattro eredi Del Vecchio: Clemente, Luca, la moglie Nicoletta Zampillo e il di lei primo figlio Rocco Basilico non hanno ancora digerito il lascito monstre di 360 milioni di euro lasciatigli dal padre-marito. E soprattutto che il Milleri ci abbia aggiunto a carico anche 51 milioni di tasse. Invece, e nel distretto della finanza meneghina si sussurra anche perché spinto dal sempre pugnace Sergio Erede, lo storico avvocato del gruppo, il manager ha alzato il tiro con richieste (presidente, radicale rinnovamento e non maquillage del cda) che sembravano pensate apposta per farsi dire di no. E dunque scatenare la bagarre. Come andrà a finire lo si scoprirà presto. Per ora grandi brividi non ne corrono, se non sapere cosa sceglierà Agordo: lista lunga o lista corta, sempre di minoranza ovviamente se no chi li sente a Francoforte.

Mediobanca, i desiderata di Milleri e la partita su Pagliaro
Francesco Milleri (Imagoeconomica).

Il silenzio del convitato di pietra Caltagirone

Dimenticavamo. Nella vicenda c’è anche un altro protagonista, un convitato di pietra che per ora resta silente, senza però rinunciare a muoversi sottotraccia. In fondo lui, Francesco Gaetano Caltagirone, ha sempre sostenuto che la partita che gli interessava si giocava a Trieste e non a Milano, per quanto Generali e Mediobanca abbiano un rapporto di colleganza simile a quello della conchiglia col paguro bernardo. In fondo controlla pur sempre il 10 per cento dell’istituto, quindi impensabile possa restare indifferente. Ma siccome è dotato, oltre che di tanti soldi, di raffinata sagacia, si guarda bene dall’infilarsi in una tenzone il cui esito rischia di evocare gli spettri della battaglia persa a Trieste. Del resto gioca sui tempi lunghi, convinto che l’allora vittoria di Piazzetta Cuccia in Generali sia di Pirro e che inevitabilmente, basta saper attendere, gli assetti di quella che una volta si chiamava la galassia del Nord siano destinati a cambiare. Viene in mente di quando Maranghi, ogni volta che Mediobanca era sotto schiaffo (vuoi per la politica, vuoi per l’intraprendenza di qualche capitalista di ventura poi finito male), riversava su Cuccia le sue paure. Che il grande vecchio bonariamente irrideva. «Caro Vincenzo, è caduto l’impero romano vuole che non cada Mediobanca?». Sì, cadrà certamente anche Mediobanca, almeno questa che per certi versi, almeno nei suoi uomini, mantiene un filo con la stagione che fu. Ma non adesso, si dia tempo al tempo. Intanto i barbari alle porte devono restare ancora accampati ad aspettare.

Mediobanca, i desiderata di Milleri e la partita su Pagliaro
Francesco Gaetano Caltagirone (Imagoeconomica).

Le quotazioni di Borsa italiana e spread del 6 settembre 2023

Dopo una giornata da venti di recessione, con tutte le Borse europee deboli e Milano che ha chiuso la seduta a Piazza Affari di qualche frazione positiva, Tokyo inizia gli scambi col segno più. Hong Kong, invece, torna in territorio negativo, condizionata dalle perdite di Wall Street e dal rialzo delle quotazioni del petrolio. Le peggiori martedì sono state Parigi e Francoforte, che hanno ceduto lo 0,3 per cento finale, con Madrid in ribasso dello 0,2. Più caute Londra, che ha chiuso in calo dello 0,1 per cento, e Amsterdam, che ha concluso sui livelli della chiusura della vigilia.

I valori delle Borse e dello spread in tempo reale

4.11 – Hong Kong negativa, apre a -0,28%

La Borsa di Hong Kong torna agli scambi in territorio negativo, condizionata dalle perdite di Wall Street e dal rialzo delle quotazioni del petrolio che potrebbero riversare nuove tensioni sulla dinamica dei prezzi: l’indice Hang Seng cede nelle prime battute lo 0,28%, scivolando a 18.405,09 punti. Il Composite di Shanghai perde nei primi minuti di contrattazione lo 0,42% a 3.141,24 punti, mentre quello di Shenzhen cede lo 0,54% scivolando a quota 1.959,54.

2.42 – Tokyo, apertura in rialzo (+0,27%)

La Borsa di Tokyo inizia gli scambi col segno più, proseguendo la serie di sette rialzi consecutivi grazie allo yen debole e malgrado la contrazione degli indici azionari statunitensi penalizzati dall’aumento delle quotazioni del petrolio. In apertura l’indice di riferimento Nikkei avanza dello 0,27% a quota 33.124,57, aggiungendo 87 punti. Sul fronte dei cambi la divisa giapponese si svaluta sul dollaro a 147,50 e sull’euro a 158,20. Il prezzo del Brent si assesta sopra i 90 dollari per la prima volta da novembre, dopo i tagli alla produzione da qui a fine anno decisi da Arabia Saudita e Russia.

Perché l’imposta straordinaria sulle banche rischia di essere un boomerang

Ogni giorno politici, manager e banchieri d’affari spendono una parte significativa del loro tempo a dialogare con investitori istituzionali esteri, con lo scopo di convincerli a investire nelle aziende del nostro Paese. In primis perché la gran parte sono realtà eccezionali, leader globali in settori di nicchia, fondate da imprenditori unici: creativi, competenti e appassionati. La principale perplessità che devono affrontare riguarda l’incertezza delle regole nel nostro Paese e le ripercussioni che ne derivano sullo scenario, a cominciare dall’impatto di repentini e inaspettati cambiamenti delle regole fiscali.

L’annuncio dell’imposta straordinaria sulle banche disincentiva gli investitori esteri 

La manovra del governo annunciata lunedì sulla tassazione degli extra profitti delle banche avrà un effetto negativo sulla disponibilità degli investitori esteri ad allocare risorse sul nostro Paese. Molti di loro si chiederanno perché devono continuare a investire in azioni di aziende bancarie italiane invece che in quelle dei concorrenti francesi e tedeschi, svizzeri o americani. La sensazione è che i cali azionari di martedì 8 agosto siano la logica reazione degli investitori esteri che hanno risposto a questa domanda alleggerendo le posizioni sui titoli bancari italiani.

Perché la tassazione degli extraprofitti rischia di essere un boomerang
Matteo Salvini (Imagoeconomica).

Le alternative per salvaguardare mutui e potere d’acquisto

Il fine del governo è corretto: bisogna salvaguardare il diritto alla prima casa e il potere di acquisto delle famiglie, con particolare riguardo a quelle meno abbienti; ma i modi non sono quelli giusti, in un’economia di mercato e in un contesto internazionale dove gli investitori, se si sentono toccati, hanno sempre tante alternative su cui dirottare i loro soldi. Ad esempio si sarebbe potuto fissare un tetto ai tassi dei mutui in funzione dello spread sulla remunerazione dei depositi bancari. E in aggiunta semplicemente chiedere a Poste Italiane spa di remunerare i depositi, per esempio al 3 per cento; in tal modo si sarebbe potuta fare una legge ad hoc per consentire la migrazione dei conti in automatico, incentivando così le banche a remunerare adeguatamente i depositi con un’operazione di mercato. Il rischio è che per risolvere un obiettivo problema delle famiglie italiane se ne crei un altro di dimensioni altrettanto rilevanti.

LEGGI ANCHE: Piazza Affari rimbalza dopo le precisazioni del Mef

Borsa, effetto extraprofitti sulle banche: Milano maglia nera d’Europa

È Milano la maglia nera tra le Borse europee nel giorno della tassa sugli extraprofitti delle banche annunciata con il ‘decreto asset’ dal governo Meloni e presentato a sorpresa dal vicepremier Matteo Salvini. L’indice Ftse Mib ha ceduto a fine seduta il 2,12 per cento a 27.942 punti, tra scambi fiume per 3,54 miliardi di euro di controvalore, nonostante il periodo di ferie estive, bruciando in tutto 27,71 miliardi. Quasi un terzo di questi dalle banche, che hanno perso quasi 9 miliardi (8,96 per la precisione) in termini di capitalizzazione di Borsa. Nel dettaglio, Bper ha ceduto il 10,94 per cento, Mps il 10,83 , Fineco il 9,91, Banco Bpm il 9,09, Intesa l’8,67 , Mediolanum il 5,96 e Unicredit il 5,94 per cento. Più caute Banca Generali (-3,14 per cento), Mediobanca (-2,48 per cento) e Banca Sistema (-1,55 per cento), che prevede un effetto «quasi nullo» della tassa. Ha perso ancora meno Poste (-1,4), che effettua anche servizi bancari.

LEGGI ANCHE: Decreto Omnibus, gli extraprofitti alle banche e il giallo dell’assenza di Giorgetti

Il listino di Piazza Affari ha risentito parzialmente anche del calo del greggio nel corso della seduta, attenuatosi poi a scambi chiusi durante la sessione americana (Wti -0,13 per cento a 81,83 dollari al barile). Saipem ha ceduto il 2,44 per cento ed Eni lo 0,38 per cento, mentre si è mossa in controtendenza Tenaris (+0,4 per cento), favorita però dal calo dell’acciaio (-0,89 per cento a 3.684 dollari la tonnellata). Segno meno anche per Stellantis (-1,4 per cento), in linea con l’andamento del settore in Europa. Pochi i rialzi, limitati a Recordati (+2,49 per cento), Tim (+2,17), Hera (+1,93), A2a (+1,82), Amplifon (+1,51), Italgas (+1,38), Erg (+1,07), Snam (+0,77) e Terna (+0,58).

In calo anche le principali Borse europee

Hanno chiuso la seduta in calo le principali Borse europee. Parigi ha ceduto lo 0,69 per cento a 7.269 punti, Londra lo 0,36 per cento a 7.527 punti, Francoforte l’1,1 per cento a 15.774 punti e Madrid lo 0,68 per cento a 9.294 punti. In rosso anche gli indici Usa: il Dow Jones a -1,18 per cento e il Nasdaq a -1,6 per cento.

 

Crolla Piazza Affari: le banche bruciano 9 miliardi in Borsa dopo l'annuncio della tassa sugli extraprofitti
Il Palazzo Mezzanotte sede della Borsa Italiana a Milano (ANSA).

Il differenziale tra Btp e Bund chiude a 165,5 punti

Ha chiuso in rialzo a 165,5 punti il differenziale tra Btp e Bund decennali tedeschi, contro i 165 punti segnati nella vigilia in chiusura. In ribasso di 13,4 punti il rendimento italiano al 4,11 per cento. Identico il calo del rendimento dei titoli tedeschi, sceso al 2,46 per cento.

Mediobanca e Generali: le manovre di Delfin e Caltagirone

Gli sconfitti lo scorso anno nella battaglia per il controllo delle Generali non si sono certo rassegnati. Così, complice l’autorizzazione data alla Delfin della famiglia Del Vecchio per poter salire fino al 20 per cento della compagnia triestina, si è tornati a speculare di grandi manovre. Nel mirino ci sono Renato Pagliaro, presidente di Mediobanca, e Philippe Donnet, ceo di Generali. Il primo per l’ortodossia che ha incarnato in questi anni, e che ne ha fatto il vero integerrimo custode dell’istituto di Piazzetta Cuccia. Il secondo per l’autonomia con cui ha fieramente gestito la compagnia, specialmente dopo il complicato rinnovo al vertice. L’autorizzazione da parte di Delfin, richiesta all’Ivass, per salire fino al 20 per cento delle Generali è il risultato di una mera tecnicalità, la conseguenza cioè del piano di buy back avviato dalla compagnia nell’agosto del 2022 e implementato nei mesi successivi. Avendo involontariamente superato la soglia del 10 per cento la holding della famiglia Del Vecchio, su spinta anche del suo legale Sergio Erede, ha approfittato della situazione e ha bussato alla porta dell’authority di controllo del settore per ottenere l’autorizzazione a salire nel capitale.

Mediobanca e Generali: le manovre di Delfin e Caltagirone
Philippe Donnet, ceo di Generali (Imagoeconomica).

In Mediobanca Caltagirone e Delfin spingono per sostituire Pagliaro con Grilli

La spiegazione però convince pochi operatori. E non solo perché da una holding con 12 miliardi di attivi non ci si aspettano sviste di questo tenore, ma soprattutto per la tempistica dell’annuncio. In primo luogo il ceo Donnet, la cui rielezione lo scorso anno fu duramente osteggiata da Del Vecchio e da Francesco Gaetano Caltagirone, è quasi arrivato a metà mandato, una scadenza solitamente molto sensibile per i top manager. E quindi i due soci starebbero già ragionando sulla sua successione. Secondariamente per il fatto che fra tre mesi l’assemblea di Mediobanca (di cui Delfin detiene il 19,8 per cento e Caltagirone quasi il 9,9) dovrà eleggere il nuovo consiglio di amministrazione. Mettendo in fila questi elementi, qualche analista ha dato una lettura alternativa alla scelta di Delfin: una mossa segnaletica da leggere alla luce delle partite in corso. La scadenza più immediata è quella di ottobre, quando verrà eletto il nuovo board di Piazzetta Cuccia. L’esito della partita dipenderà dalle decisioni dei due principali azionisti che, dal 2019 a oggi, hanno rastrellato quasi un terzo delle azioni della blasonata banca d’affari milanese. Il mercato non si augura una nuova proxy fight dopo quella combattuta l’anno scorso in Generali, ma la convergenza su una lista unica appare al momento in salita. Caltagirone e Delfin chiedono subito la sostituzione del presidente Pagliaro al cui posto vorrebbero mettere Vittorio Grilli. Sarà un caso, ma proprio ieri in audizione alla Commissione finanze del Senato l’ex ministro del Tesoro ora banchiere per JP Morgan si è schierato sulle posizioni espresse nella medesima sede da Caltagirone che aveva definito «autocratiche» le liste proposte dal cda.

Mediobanca e Generali: le manovre di Delfin e Caltagirone
Renato Pagliaro presidente di Mediobanca (Imagoeconomica).

Senza una convergenza, sull’asse Milano-Trieste ci sarà di nuovo la guerra

Ma togliere Pagliaro (che prenderebbe il posto di Carlo Cimbri alla presidenza dello Ieo, l’Istituto europeo di oncologia nato su iniziativa di Enrico Cuccia e del professor Umberto Veronesi) potrebbe rivelarsi una mossa rischiosa per Nagel e per la stessa Mediobanca. Si arriverà a un accordo? Non è un mistero che sul tavolo della trattativa ci sia ancora Banca Generali. Dossier che potrebbe riprendere quota prima dell’assemblea ottobrina di Piazzetta Cuccia, con il beneplacito dei grandi soci e dello stesso Donnet. Le parti da tempo, al di là delle dichiarazioni ufficiali, si stanno parlando ma trovare la quadra non è facile. Per suggellare la pace, manca un passo indietro di Mediobanca che ridisegni gli assetti di controllo di Trieste e l’uscita di Pagliaro. In questo contesto la mossa di Delfin può essere letta come un avviso ai naviganti: se non ci sarà spazio per una convergenza, sull’asse Milano-Trieste ci sarà di nuovo la guerra. Un segnale credibile per i mercati? Si vedrà, anche se la débâcle del 2022 pone una pesante ipoteca sull’ipotesi di una nuova proxy fight nella galassia. Brandendo la possibilità di salire al 20 per cento Delfin starebbe in realtà puntando a un armistizio. Difficile infatti che il governo accetti la finanziaria, guidata da Milleri, come garante dell’italianità della compagnia. Tutti sanno che la dinastia Del Vecchio è divisa e tre eredi hanno contestato il testamento del fondatore Leonardo. Poi affidare il 20 per cento delle Generali a Delfin sarebbe una mossa pericolosa visto che la finanziaria potrebbe venderla in qualsiasi istante a una compagnia concorrente o a un fondo private equity. Da ultimo, in parlamento si dibatte ancora su un intervento in materia di liste del cda e a Palazzo Chigi c’è un governo attento agli assetti di controllo delle big corporate e alle eventuali ingerenze straniere. Un segnale credibile per i mercati? Si vedrà. La parola, comunque, adesso passa a Nagel che nei lunghi anni alla guida di Mediobanca ha mostrato capacità di difesa non comuni che gli hanno sempre consentito di respingere i tentativi di chi metteva in discussione il suo ruolo.

Del Vecchio, Milleri e Bardin vogliono farsi pagare pure le tasse sull’eredità

Avranno pure intenzione di scalare le Generali, ma prima in casa Del Vecchio c’è qualcosina da mettere a posto. E non di poco conto. Quel qualcosina è la miliardaria eredità lasciata dal fondatore Leonardo alla sua morte, avvenuta nel giugno dell’anno scorso. Avendo sei figli avuti da mogli diverse, e alcuni manager di fiducia da premiare (a cominciare dall’amministratore delegato Francesco Milleri cui ha voluto assegnare un generosissimo lascito, nella fattispecie un pacchetto di azioni EssiLux del valore di 340 milioni di euro) si capisce bene che il passaggio dei beni rischia di scontentare più di qualcuno e scombinare i delicati assetti seguiti all’uscita di scena del re degli occhiali.  Gli eredi mugugnano, non vorrebbero farsi carico del lascito a Milleri, che proprio in questi giorni si è visto bocciare una richiesta di un rimborso da 56 milioni di euro su cui più avanti ci soffermeremo.

Del Vecchio, Milleri e Bardin vogliono farsi pagare pure le tasse sull'eredità
Francesco Milleri (Imagoeconomica).

Escluse dai crediti le richieste di rimborso delle imposte di successione avanzate da Milleri e Bardin 

Chiaro quindi che ciascuno tenda a cautelarsi, prendendo posizione sulle varie partite creditorie nell’ambito della procedura concorsuale di liquidazione dell’eredità. È il caso di Luca Del Vecchio, 22 anni, bocconiano, uno dei due figli che il re degli occhiali ha avuto da Sabina Grossi, il quinto dei sei in ordine cronologico. Tra tutta la progenie sembra essere quello più attento alla spartizione di un impero che vale almeno 30 miliardi. Ebbene, il giovane Luca ha voluto stilare una classificazione di tutte le dichiarazioni di credito pervenute entro il 24 maggio scorso. Una miriade di richieste. Che vanno da consulenze a spese mediche, parcelle di perizie immobiliari, onorari di avvocati, stipendi e arretrati da saldare, manutenzione dello yacht Moneikos, e via discorrendo. Con l’assistenza del notaio milanese Mario Notari, i crediti sono stati suddivisi per capitoli: crediti per la procedura, crediti sorti per la gestione e il mantenimento dei beni e dei diritti dell’eredità, crediti ereditari, crediti derivanti da legati c.d. “obbligatori”, in sostituzione di legittima, crediti non ammessi al passivo (ossia crediti per i quali è pervenuta dichiarazione di credito, ma che non sono ammessi al passivo del presente stato di graduazione, in quanto ritenuti insussistenti e/o infondati e/o estranei alla procedura di liquidazione concorsuale dell’eredità beneficiata). Ed è quest’ultimo il capitolo che riserva la sorpresa più clamorosa. Anzi, le due sorprese. Perché non ammessa al passivo secondo Luca Del Vecchio, confortato immaginiamo dal parere dei suoi legali, c’è la richiesta avanzata da Milleri di rimborso delle imposte di successione sulle azioni ricevute per un ammontare di 56.156.945 euro. E quella di Romolo Bardin, tra i più stretti collaboratori di Del Vecchio e amministratore delegato di Delfin, la finanziaria cui fanno capo tra gli altri per esempio gli investimenti in Mediobanca e Assicurazioni Generali, la cui richiesta di rimborso è per 580.930 euro a fronte di un pacchetto di azioni pari a circa 3,5 milioni di euro.

Del Vecchio, Milleri e Bardin vogliono farsi pagare pure le tasse sull'eredità
dalla Gazzetta Ufficiale.

In sostanza i due manager vorrebbero che nelle spese di liquidazione di quanto ricevuto rientrasse anche la parte che loro devono versare al fisco. Detto banalmente, vorrebbero che il lascito venisse loro corrisposto al netto delle tasse. Una pretesa francamente discutibile, di cui evidentemente Luca del Vecchio (e vedremo se anche qualcun altro dei fratelli sarà della sua stessa opinione) non ha alcuna intenzione di farsi carico. Del resto Luca non è nuovo al dissenso interno. In occasione dell’ultima assemblea di Mediobanca, come titolare di 50 azioni dell’istituto di Piazzetta Cuccia, ha votato in maniera difforme da Delfin, la finanziaria di famiglia di cui è al 12,5 per cento azionista.

Le mire espansionistiche di Fabrizio Palenzona nel risiko bancario

Una marcia quasi inarrestabile. Dove vuol arrivare Fabrizio Palenzona? Il neopresidente della Fondazione Crt sarà alla guida anche della Consulta delle Fondazioni di origine bancaria del Piemonte e della Liguria. L’elezione è avvenuta nei giorni scorsi all’unanimità dall’assemblea dei soci che riunisce: la Fondazione Compagnia di San Paolo, le Fondazioni Cr Torino, Cuneo, Alessandria, Asti, Biella, Fossano, Saluzzo, Savigliano, Tortona, Vercelli per il Piemonte; le Fondazioni Carige, Carispezia e Agostino De Mari-Savona per la Liguria. «Uniamo le forze, perché abbiamo tutti lo stesso obiettivo e lo stesso dovere di offrire il miglior servizio ai territori, valorizzando le risorse che derivano dalla fatica, dal lavoro e dai risparmi delle comunità che ci hanno preceduto», ha detto il presidente Palenzona, ringraziando i colleghi presidenti delle Fondazioni piemontesi e liguri. «Un tema che ci unisce», ha proseguito Palenzona, «è certamente il disagio giovanile, la povertà educativa e di prospettiva di molti bambini e ragazzi in età scolastica e delle loro famiglie: abbiamo l’esigenza di dare risposte immediate alle disuguaglianze per riattivare l’ascensore sociale e offrire opportunità a chi non ne ha». Parole sagge.

Le mire espansionistiche di Fabrizio Palenzona nel risiko bancario
Fabrizio Palenzona.

Il camionista di Tortona sta esercitando tutta la sua influenza

C’è dunque chi si interroga su che cosa farà adesso Palenzona. Essere presidente della Consulta delle Fondazioni di origine bancaria del Piemonte e della Liguria vuol dire esercitare un potere reale sia su Unicredit sia su Intesa, oltre a governare l’Acri che nomina il presidente di Cassa depositi e prestiti. Da quando è arrivato alla presidenza di Fondazione Crt, il camionista di Tortona sta esercitando tutta la sua influenza per muovere le tessere del risiko bancario. «Le banche in cui siamo azionisti hanno dei manager che devono decidere e fare delle proposte», ha detto a margine di un convegno di Bain sul sistema bancario. «Io parlo da cittadino e dico che nel sistema ci sono ancora possibilità di aggregazione».

Le quattro partite calde di Draghi: Mps, Ita, Saipem ed Enel
Il Monte dei Paschi a Siena. (Getty Images)

Il pensiero sulle tante possibilità di aggregazione

Quello che dice Palenzona è importante perché in pancia a Crt ci sono, oltre alla quota in Generali (1,61 per cento), anche quelle in Unicredit (1,9 per cento) e Banco Bpm (1,8 per cento), dove ha siglato un patto con altri enti e casse previdenziali, a cui si aggiunge una piccolissima quota in Monte dei Paschi, derivante dal salvagente gettato a Siena in occasione dell’aumento di ottobre. Adesso, con la nuova nomina, al puzzle si aggiunge la quota della Fondazione San Paolo, primo azionista di Intesa SanPaolo. Il risiko bancario non dorme mai e il pensiero di Palenzona è chiaro: nel sistema ci sono ancora possibilità di aggregazione.

Primo incontro tra orcel e castagna
Andrea Orcel e Giuseppe Castagna.

Bpm vuole sfuggire alle mire dell’Unicredit di Orcel

Secondo varie indiscrezioni, il ceo di Banco Bpm Giuseppe Castagna sta trattando l’acquisto di Mps, risanato dal Tesoro. L’obiettivo di Castagna è duplice: da un lato, rilevando il Monte dei Paschi, fa un favore al governo; dall’altro l’acquisizione darebbe una mano a Bpm per ingrossarsi e sfuggire alle mire espansionistiche dell’Unicredit di Andrea Orcel, di cui Palenzona è grande amico. Con l’acquisizione di Mps, Bpm diventerebbe un boccone più costoso per la banca milanese. Un’operazione gradita anche a Carlo Messina. Intesa Sanpaolo, con il mancato matrimonio Unicredit-Bpm, resterebbe la prima banca italiana e potrebbe dedicarsi a qualche importante acquisizione all’estero.

I risultati del 2022 di Intesa Sanpaolo confermano la capacità del Gruppo di generare una solida redditività e di creare valore per tutti gli stakeholder.
Carlo Messina. (Getty Images)