Pochi nel cosiddetto primo mondo si rendono conto di appartenere alla percentuale più fortunata del Pianeta. Questa errata percezione unita alla disuguaglianza crescente ci condanna al caos. E in un mondo globalizzato anche le proteste lo sono.
Il neo-liberismo nasce e muore in Cile. È una scritta comparsa sui muri di Santiago, che ricorda come dopo il putsch militare contro il presidente Salvador Allende, la dittatura di Pinochet fu il primo banco di prova delle teorie di Milton Friedman e dei suoi Chicago boys, un gruppo di giovani economisti cileni chiamati dal governo a liberalizzare l’economia del Paese. Laissez-faire, monetarismo, taglio delle tasse ai ricchi, privatizzazione di previdenza e sanità sono stati i loro capisaldi teorici.
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«Miracolo cileno» lo defini l’economista neo-liberista che ispirò poi altri Paesi e leader negli Usa (Ronald Reagan) e in Europa (Margaret Thatcher). Ora quel miracolo si trova nel pieno di una rivolta sociale scoppiata con incredibile velocità e forza. E la cui principale causa è spiegata in un tweet dell’altro giorno di Branko Milanovic che segnala come «il Cile batta la Russia per ricchezza detenuta dai miliardari sulla percentuale rispetto al Pil nazionale (Forbes 2014). Il Cile, sotto quest’aspetto, è attualmente il Paese più ineguale al mondo».
PERCHÉ LA RIDISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA È NECESSARIA
Milanovic, autorevole economista serbo-statunitense nel saggio del 2017 Ingiustizia globale, migrazioni, diseguaglianze e il futuro della classe media segnalava come la crescente diseguaglianza e concentrazione delle ricchezze in poche mani rendesse indispensabile la ridistribuzione dei redditi da parte del capitale. Pena il precipitare nel più generale scatenamento di criminalità diffusa, proteste di piazza, permanenti tensioni e conflitti sociali. Sostanzialmente quel sta accadendo un po’ in tutto il mondo. E che segnala due grandi disattenzioni. Una evidente a tutti, ma alla quale non si riesce a porre concreto rimedio, l’altra invece non considerata, anche se la sua azione produce idee e convinzioni errate, dunque soluzioni illusorie.
APPARTENIAMO AL 5% E NON CE NE RENDIAMO CONTO
La prima riguarda il permanere di un’abissale sperequazione, riassunta dall’1% di ricchi contrapposto al 99% di poveri, che è stata la bandiera della protesta di Occupy Wall Street scoppiata però più 10 anni fa. La seconda si riferisce al fatto che quasi nessuno in Italia, come nel resto dell’Occidente sviluppato, è consapevole di appartenere, anche se non miliardario e nemmeno milionario, a una frazione minima della popolazione mondiale benestante. Ossia di essere non l’1% però ben dentro il 5%. Se volete verificarlo andate sul sito globalrichlist.com e digitate il vostro reddito. Scrivete per esempio 20 mila euro, che possiamo considerare un reddito medio-basso: dopo un rapidissimo conto scoprirete di fare parte del 2,26% di popolazione mondiale più ricca. Ora questo giochino è funzionale a una bella iniziativa di charity marketing la cui filosofia è riassunta nel messaggio che lancia e che ci dice: «Vedi che sei molto più ricco di quel che credevi….allora tira fuori i soldi, fai un offerta per una buona causa».
CI SENTIAMO POVERACCI, MA NON LO SIAMO
Certo bisogna tenere ben presente che a un impiegato o un operaio che sta a Como, Bologna, Livorno o Bari non interessa sapere cosa guadagna un suo pari grado in Bangladesh, in Vietnam o in Senegal. Anche perché i livelli di consumi non sono comparabili e ognuno di noi fa i conti con la situazione e il caro-vita del Paese in cui vive. Ma è altrettanto vero che il povero (relativo) italiano è relativamente molto più ricco di tre quarti di umanità. Però non ci pensa o non ne è consapevole, perché non guarda chi sta peggio, ma chi sta meglio. E questo sguardo non agli ultimi e penultimi, ma ai primi e addirittura primissimi, lo fa sentire un poveraccio, ancor più miserabile di quel che è in realtà.
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COSA DICONO I NUMERI DELLA RICCHEZZA ITALIANA
«Siamo indigenti perché non siamo poveri», scriveva Famiglia Cristina nel 2008, nel momento in cui stava partendo la Grande Depressione e dopo che l’anno prima il 74% degli italiani, secondo l’annuale Rapporto Censis aveva dichiarato «di sentirsi povero». Un sentimento che in questi anni in Italia e in tante altre zone d’Europa è cresciuto, ben più e anche a dispetto di quel che certificano le statistiche sui patrimoni, sui redditi, sui consumi. Certo sono 20 anni che il Paese cresce poco, però è cresciuto. I confronti internazionali dicono che la ricchezza nazionale è meno dinamica di quella nord-europea, tuttavia quella lorda delle famiglie dal 1990 al 2010 è cresciuta mediamente del 5% annuo. Nel 2015, secondo dati Istat Eu-Silc, il reddito delle famiglie era cresciuto dell’1,8% rispetto all’anno precedente. Negli ultimi 3 anni, 2016-18, è sempre I’Istat a dirci che «il potere d’acquisto degli italiani è in qualche misura migliore rispetto a un paio d’anni fa».
ABBIAMO UNA IDEA OSSESSIVA DI CRESCITA
La grande questione, che non riconosciamo più, è che viviamo in una società dominata da un’idea ossessiva di crescita, di moltiplicazione esagerata dell’offerta quotidiana di nuovi prodotti, pratiche ed esperienze. Insomma di tutto e di più, sin che si può e ce ne sta. Perché l’adsl è superveloce e illimitata, non c’è prodotto che non sia easy&simple e il salotto nuovo Poltrone &Sofà te lo dà subito e lo paghi quando vuoi. Per essere brutalmente sintetici tutti noi abbiamo maturato attese eccessive. Ma i nostri desideri e voglia di gratificazioni si infrangono contro una realtà che ci ricorda, ogni giorno e in concreto, che la quotidianità è mediamente dura per tutti e poco o per niente straordinaria, come invece raccontano la pubblicità, i magazine di gossip e vipperia varia, le immagini di Instagram, le imprese delle star del web.
QUEL GIUSTO EQUILIBRIO TRA ASPETTATIVE E OPPORTUNITÀ
Le teorie classiche sostengono che una società funziona quando il sistema delle attese personali viene validato da un’adeguata offerta e da una possibilità di soddisfacimento. Ossia quando aspettative e opportunità, ma anche sogni e desideri, possono realizzarsi in misura diversa, però ritenuta equa, ragionevole, giusta. Cosa questa che comporta non solo il buon funzionamento dei poteri pubblici e delle politiche governative. Ma anche che persone, utenti, cittadini che abbiano una percezione adeguata della realtà, ovvero un realistico e ragionevole senso delle proporzioni e dei limiti.
L’ERRORE È RISPONDERE IN MODO SEMPLICE A INTERROGATIVI COMPLESSI
Purtroppo e per ripetere il concetto ci troviamo invece a fare i conti con una situazione che è squilibrata e fuori controllo su entrambi i lati. Con aggravante ulteriore che gli squilibri, i disallineamenti sono presenti un po’ ovunque e che le criticità più forti sono proprio in settori cruciali e strategici. Disagio economico e conflittualità esasperata, guerre commerciali e rivendicazioni nazionalistiche, disastro ambientale e climatico stanno agendo infatti in modo concomitante.
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È questa la novità assoluta segnalata dalle teorie acceleranti di Raymond Kurzweil e del saggio di Youvel N.Harari XXI secolo, che disegnano scenari potenzialmente disastrosi. Ancor più tragici se a tutti questi problemi complessi si risponde in modo semplice. Autoritario. Attaccandosi al passato, alla tradizione, anziché aprirsi al futuro. E in caso di idee diverse e avverse, reprimerle anche brutalmente. Come sta avvenendo, appunto in Cile, ma anche a Hong Kong, a Beirut, in un succedersi sempre più incalzante di proteste e violenze che dagli indipendentisti della Catalogna ai gilet gialli francesi ci dicono che nel mondo globale anche le proteste e le violenze di piazza lo sono. E che il passaggio epocale che stiamo vivendo, la transizione che ci si sta profondamente cambiando, sarà nient’affatto facile, veloce e tranquilla. Ma al contrario lunga, dura e turbolenta.
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